giovedì 11 febbraio 2016

Conosciamo la rabbia

Per crescere, i bambini hanno bisogno di sperimentare continuamente quello che possono e non possono fare, limiti e possibilità: l’aggressività è una naturale e sana espressione di questo processo di sviluppo. Una reazione arrabbiata e collerica è prima di tutto la manifestazione di un’emozione di questo normale processo e il bambino deve essere libero di esprimerla per poter imparare a controllarla. Quando si impara qualcosa di nuovo, la si fa inevitabilmente male e la rabbia non fa eccezione: i bambini si arrabbieranno “male” per un bel po’, prima di imparare a farlo “bene”! Perché è necessario insegnare ai bambini come manifestare la rabbia, non insegnare loro a non arrabbiarsi.



L’espressione della rabbia, inoltre, è il primo passo verso l’accettazione della frustrazione. I bambini non accettano volentieri un NO e, per farlo, devono necessariamente attraversare la collera. Difatti, non poter ottenere ciò che si desidera provoca un naturale sentimento d’ira causato dal non poter soddisfare ciò che si desidera – e questo non vale solo per i bambini!
Un bambino arrabbiato, quindi, non è cattivo: è un bambino che sta crescendo, che sta sperimentando se stesso e quello che sente dentro di sé e che sta imparando a conoscere il mondo che lo circonda.
Vediamo insieme come si manifesta l’aggressività nei bambini e come cambia nei primi anni di vita:
- fino ai 18 mesi circa il bambino non sa ancora esprimersi bene attraverso il linguaggio e, anche per questo, le sue reazioni sono molto fisiche: spesso a quest’età i bambini mordono, spingono o strattonano per manifestare la loro frustrazione. Anche se non si devono assecondare questi comportamenti, dobbiamo sempre tenere presente che non c’è l’intenzionalità di fare male. Il morso, ad esempio, rappresenta la modalità più adatta per manifestare diverse emozioni e per “provare” l’altro;
- intorno ai 2 anni l’aggressività comincia a essere intenzionale, è ancora molto fisica ed è rivolta soprattutto verso mamma e papà, da cui i bambini hanno bisogno di separarsi per affermare la propria individualità e conquistare il loro posto nel mondo;
- a 3 anni la rabbia inizia ad essere rivolta anche verso i coetanei e diviene uno strumento – quasi l’unico a loro immediata disposizione! – per trovare uno spazio all’interno di un gruppo di pari.
Vediamo insieme quali comportamenti adottare davanti alla rabbia e all’aggressività dei bambini per non esserne sopraffatti noi e perché i piccoli non crescano con l’idea che arrabbiarsi sia sbagliato.
- Diamo poche spiegazioni.
Più il bambino è piccolo, meno dobbiamo dilungarci in spiegazioni articolate; diciamogli chiaramente che quella determinata cosa non si fa, allontaniamolo e diamogli il tempo di calmarsi. Dobbiamo sempre ricordarci che il nostro bimbo imparerà a non essere aggressivo, ma per capirlo dovrà arrabbiarsi molte volte!
Le spiegazioni devono essere sempre brevi e chiare: un bambino arrabbiato fatica a concentrarsi su quello che gli diciamo. Ecco perché è opportuno usare poche parole molto precise. Una volta che si sarà calmato, possiamo chiedergli “Hai capito perché mi sono arrabbiato?”. Le risposte a questa domanda ci sorprenderanno, perché spesso i bambini non lo sanno davvero o hanno idee molto lontane dalla realtà. E noi avremo l’occasione di spiegare il perché in un clima più disteso e favorevole alla comprensione.
1. Disapproviamo il comportamento, non il bambino. Ricordiamoci di dire al bambino: “Hai fatto una cosa antipatica, brutta…”. E mai: “Sei un bambino cattivo”. E’ fondamentale evitare di dare giudizi assolutizzanti che imprigionano i bambini in etichette impossibili da modificare. E’ molto più facile pensare di cambiare un singolo comportamento che una persona nella sua interezza. Inoltre per i bambini è vitale sapere che i sentimenti che provano sono sempre accettati, indipendentemente dalla loro manifestazione. Anche in questa occasione teniamo presente che è più facile controllare l’esternazione di un sentimento che il sentimento stesso. Un’emozione si prova anche contro la propria volontà. Viceversa la sua espressione esterna può avere diverse modulazioni molto più gestibili.
2. Conteniamo il bambino. Quando i bambini sono piccoli, spesso esprimono la rabbia in modo fisico, anche con accessi di aggressività. In questi casi soprattutto, i piccoli non sanno ritrovare la calma in maniera autonoma; è necessario allora dare loro un abbraccio contenitivo. E’ un modo fisico, non verbale, molto efficace di dire loro: “Eccomi, sono qui. Ti calmo io, perché io ho la forza per farlo”.
3. Proponiamo alternative per sfogare la rabbia. Se, come abbiamo visto, la rabbia è normale, non dobbiamo chiedere a un bambino di non arrabbiarsi. Il nostro compito è di insegnargli un modo alternativo per sfogarsi, permettendogli così di conoscere e controllare questa emozione e, prima di tutto, dobbiamo permettergli di tirare letteralmente fuori quello che sente dentro di sé. Possiamo scegliere un cuscino, uno solo, che può diventare il cuscino della rabbia da bistrattare quando si è arrabbiatissimi; possiamo tenere un quaderno della rabbia in cui disegnare ogni volta tutta la rabbia che sentiamo, strappare il foglio e fare in mille pezzettini il furioso disegno; oppure possiamo prendere dei vasetti con etichette colorate, uno per ogni emozione, e prendere quello della rabbia per urlarla al suo interno e richiudere il coperchio per non farla uscire. In questo modo aiutiamo il bambino a riconoscere le emozioni: un vasetto per la felicità, uno per la tristezza è un buon modo per rendere concreto qualcosa che non si può vedere e per iniziare a nominarle e a riconoscerle.
4. Diamo noi voce alla sua rabbia. Diciamogli che capiamo che è infastidito, arrabbiato o furioso – cerchiamo di essere precisi, la rabbia non è sempre uguale! -, ma che questa cosa non si può comunque fare. Lo abitueremo così a verbalizzare le emozioni e a conoscerle e lo accompagneremo verso l’accettazione della frustrazione.
5. Manteniamo la nostra posizione. Di fronte al grido “E’ un’ingiustizia!!!!”, rispondiamo con più tranquillità possibile che è vero, questa cosa forse è ingiusta per lui, ma resta così. I bambini hanno un forte senso della giustizia, ma nei primi anni di vita è giusto ciò che vogliono loro e ingiusto ciò che impongono gli altri. E ci vuole un bel po’ di tempo perché questa concezione di giustizia si modifichi.
6.  Non sommiamo la nostra rabbia  a quella del nostro bambino. Proviamo a sedare la rabbia senza ricorrere anche noi ad essa! Preferiamo la calma: questa è forse la parte più difficile, ma è il modo migliore per offrire un modello di comportamento alternativo. E i bambini, si sa, imparano da quello che vedono prima ancora che da quello che diciamo loro.

Lasciamo, quindi, che i bambini si arrabbino: insegneremo loro ad accettare i limiti, a conoscere il mondo e a sviluppare la loro identità. Il compito difficile è, ancora una volta, dei genitori: riuscire a sopportare urla e pianti e resistere a occhioni tristi che guardano imploranti è difficile. Ma è per il loro bene e non possiamo tirarci indietro!

http://www.consulenzafamiliare.com/conosciamo-la-rabbia/

mercoledì 10 febbraio 2016

Gruppi di parola: il bisogno di essere ascoltati.

I "Gruppi di Parola"si sono diffusi in Italia di recente, grazie al gruppo di professionisti del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell'Università Cattolica di Milano, diretto dalla prof.ssa Eugenia Scabini. Nascono quindi dalla ricerca negli altri Paesi di "buone prassi" di ascolto e supporto dei minori che stanno vivendo la separazione dei propri genitori.
Dopo varie ricerche, in Canada è stato individuato il modello a cui ispirarsi: si tratta dei "Groupe confidences"organizzati da Lorraine Filion presso il Tribunale di Montreal, per dare spazio alla parola dei figli di genitori separati che ricorrevano al giudice. Per evitare il rischio della banalizzazione dell'evento separativo, la mediatrice canadese ideò questo intervento dalla forte valenza preventiva, dove erano affrontati i rischi, le ferite, la fatica presenti nella vita pratica e nell'esperienza emotiva dei figli di separati.
I Gruppi di Parola si possono definire un "luogo" e un "tempo" offerto ai figli di genitori separati, affinché questi abbiano la possibilità di accedere ad una loro narrazione dei fatti dolorosi legati al divorzio. Si tratta di un'esperienza in cui il minore può costruire liberamente una rappresentazione verbale dell'esperienza del conflitto vissuto quotidianamente, può dar voce ai suoi desideri e reperire con l'aiuto del gruppo di pari e con la guida protettiva del conduttore, strategie possibili per gestire le relazioni all'interno del suo sistema familiare in cambiamento.
Accanto alla mediazione, rivolta in particolare alla coppia genitoriale, i Gruppi di Parola sono una risorsa specifica per accompagnare i figli in questo momento di transizione: entrambe queste risorse rappresentano dei fattori protettivi affinché un evento critico come la separazione, non diventi un dramma.

Parlo di questa iniziativa con grande passione, dopo aver avviato a Padova negli ultimi due anni sette gruppi di bambini. Ma vediamone in dettaglio in cosa consistono
Secondo il modello "milanese" il Gruppo di Parola permette infatti lo scambio e il sostegno tra bambini dai sei ai dodici anni (suddivisibili in gruppi dai sei ai nove anni e dai nove agli undici anni) accomunati dall'esperienza della separazione dei propri genitori.
Il percorso è strutturato in quattro incontri di due ore ciascuno con cadenza settimanale (si mantiene lo stesso giorno della settimana con lo stesso orario) e all'ultima ora dell'ultimo incontro vengono invitati (con invio di lettera personale) entrambi i genitori per "raccontare" attraverso la lettura del "Letterone" di gruppo quanto è emerso negli incontri precedenti (i contenuti vengono scritti sotto forma anonima attraverso semplici frasi o domande rivolte ai genitori). Il numero dei partecipanti non dev'essere troppo elevato, affinché il dialogo non risulti né troppo personale, né troppo dispersivo (si va dai quattro agli otto partecipanti).

Ogni appuntamento di gruppo è scandito da momenti rituali e prevede un momento preliminare in cui si accolgono i bambini, in attesa che arrivino tutti i partecipanti; Le varie fasi del gruppo prevedono un esordio, la proposta dell'attività principale, una breve pausa con la merenda (proposta e offerta come sorpresa dal conduttore del gruppo) a cui seguono altre attività, collegate al tema proposto nella prima parte e infine un congedo.
L'avvio, l'interruzione, il congedo seguono dei rituali ben precisi per offrire sicurezza agli elementi del gruppo, che pur non conoscendosi entrano in confidenza già dai primi istanti di presentazione: l'aver vissuto esperienze simili crea una connessione tra loro difficilmente spiegabile a parole, ma che li rende compagni e solidali tra loro, al di là delle simpatie/antipatie individuali.
Le tematiche proposte sono numerose e possono variare (molto spesso è così) in base a quanto emerge nel primo incontro di conoscenza: il senso di responsabilità verso la separazione dei genitori, il conflitto, la relazione con il genitore non coabitante, i nuovi compagni dei genitori, i nuovi fratelli, la nuova posizione del figlio nella geografia famigliare, cosa significa che i genitori non sono più coppia ma genitori per sempre...tutte frasi che loro sentono, ma di cui molto spesso non capiscono il reale significato.
Questi temi vengono trattati in modo flessibile, in base ai bisogni che emergono da quel determinato gruppo: per questo motivo viene raccomandato, durante la formazione per conduttori, di avere più strumenti accuratamente preparati in modo da poter gestire la scelta dello strumento in base alla valutazione del momento (lavorare con i bambini porta con sé sempre una dose di imprevedibilità). Si utilizzano il disegno, il collage, i cartelloni, i burattini, i libri illustrati, i giochi di ruolo ma come già detto la parola è la risorsa principale: parola che si fa condivisa (nel confronto di gruppo), che si fa riservata (nella scatola dei segreti) e parola che può rimanere ancora silenzio.
La preoccupazione del conduttore è quella non solo di permettere l'enunciazione del fatto e del sentimento che lo accompagna, ma di aiutare il gruppo ad individuare strategie di fronteggiamento nel quotidiano, delimitando cosa compete ai figli e cosa agli adulti coinvolti.
A questo proposito, al termine dei quattro incontri rivolti ai bambini, viene proposta a ciascuna coppia genitoriale la possibilità di incontrare il conduttore/le conduttrici del gruppo, per un confronto su come il proprio figlio ha vissuto gli incontri, se è cambiato qualcosa nel rapporto con i genitori (solitamente i genitori raccontano che il primo effetto del gruppo si manifesta nella gran quantità di domande che il bambino comincia a fare già dopo il primo incontro) e solitamente emergono anche le loro difficoltà di adulti nel gestire il legame genitoriale.
Dall'esperienza si è visto poi che più di qualche coppia, sollecitati dal percorso fatto dal loro bimbo, ha richiesto degli incontri di mediazione per essere sostenuti nel compito genitoriale, che ben sappiamo di difficile gestione dopo aver interrotto il legame coniugale.
Quest'ultimo incontro con il conduttore è ovviamente liberamente proposto e compreso nel contributo richiesto per l'iscrizione al Gruppo di Parola: si è visto che i genitori accolgono con piacere l'invito all'incontro individuale finale, come naturale conseguenza dell'autorizzazione richiesta per l'iscrizione del figlio. Si sono presentati in questi anni solo rari casi in cui i due genitori hanno richiesto un incontro individuale, separatamente dall'ex coniuge.
"Iscrivere il proprio figlio ad un Gruppo di Parola è per lui un'opportunità per vivere meglio le trasformazioni che attraversano la famiglia": questa è la frase di Marie Simon. Con questo proclama iniziale, si invitano i genitori, pur divisi e talvolta in aperto conflitto, a prendere un'iniziativa congiunta (ma non per nulla scontata anche nell'affidamento condiviso) firmando la scheda di iscrizione.
I bambini che stanno vivendo questa trasformazione della propria famiglia, spesso raccontano che la testa è ingombra di preoccupazioni per quello che succede a casa e non hanno spazio per ascoltare e per fare le "cose" della loro età: sentono parlare di avvocati e di tribunale e non capiscono cosa cambierà nella loro vita.
E se i genitori pensano che i figli "siano rimasti fuori dal conflitto" o che non sappiano, è vero invece che questi recepiscono le vicende dei "grandi" e sostituiscono le informazioni reali, che il più delle volte non vengono fornite, con delle fantasie che molto spesso comprendono la responsabilità del bambino stesso: il senso di colpa è purtroppo frequente e doloroso.
Troppo spesso il disorientamento che travolge i bambini in questa lunga fase di trasformazione delle relazioni familiari, si accompagna ad una grande solitudine: non sanno bene come esprimere la rabbia, la tristezza, i dubbi, le difficoltà che incontrano per la separazione di mamma e papà e non sanno con chi parlarne.
Partecipare ad un Gruppo di Parola permette ai bambini di esprimere ciò che vivono: emozioni, dubbi, timori, fantasie, preoccupazioni che occupano la loro mente impedendo di vivere il loro tempo di bambini. La condivisione tra bambini permette di far uscire il singolo bambino dall'isolamento, affrontando tematiche di fondamentale importanza in un ambiente accogliente che permetta di "nominare" l'evento della separazione, che in questo modo viene decifrato e ridimensionato.
Le finalità dell'intervento mirano a fornire ai bambini e ai loro genitori competenze utili per facilitare la comunicazione e la risoluzione dei problemi connessi alla separazione, offrire un ambiente sicuro in cui poter parlare dei loro pensieri, sentimenti, dubbi e raccontare le loro esperienze e imparare ad affrontare le situazioni difficili a seguito della nuova riorganizzazione familiare.


Dare parola ai figli, rappresenta un passo verso la soggettivazione del bambino con il conseguente miglioramento della sua autostima: da oggetto passivo nelle mani dei genitori, può sperimentare nel gruppo una posizione più attiva e mettere in movimento risorse proprie e della sua famiglia, per convivere al meglio con la propria realtà complessa.
In conclusione, la partecipazione ad un Gruppo di Parola non modifica magicamente il contesto quotidiano dei bambini, né suggerisce una prassi di comportamento.
Semplicemente e "potentemente" offre un'occasione al bambino per riconoscere le proprie emozioni, i propri sentimenti, i dubbi, le speranze, le risorse presenti dentro di lui e nell'ambiente in cui vive e per nominare le difficoltà di tutti i giorni, attrezzando così i partecipanti affinché ciascuno, forte dell'esperienza di gruppo vissuta, scopra soluzioni praticabili nel suo contesto familiare, riavviando o consolidando la comunicazione all'interno della propria famiglia.
Concludo riportando le parole di E. Scabini sull'importanza che riveste l'ascolto del minore per tutto il sistema famiglia che è alla ricerca di un nuovo equilibrio:

"Proprio a partire dalla domanda del figlio, la coppia oggi fragile e mossa prevalentemente dal diritto individuale di appagamento e in difficoltà a rispondere adeguatamente alle proprie responsabilità generative, può trovare forza e motivi di una rinnovata alleanza genitoriale. Partire dalla domanda del figlio, dal suo interrogare la coppia e la storia familiare che la precede è il vero antidoto alla parentificazione, soluzione quasi inevitabile se ci si affanna a "normalizzare" le ferite preoccupandosi solo del rapporto tra il singolo genitore e il singolo figlio, saltando per così dire il legame di coppia."

http://www.genitoripersempre.it/Convegni-e-Incontri/il-bisogno-di-essere-ascoltati-la-nuova-risorsa-dei-gruppi-di-parola.html

domenica 7 febbraio 2016

GRUPPI DI TERAPIA SULLA DIPENDENZA AFFETTIVA




La condivisione è il principio base che guida questa esperienza,
attraverso la quale ognuno può riscoprire nell'altro le sue stesse difficoltà,
venendo in contatto con percorsi nuovi da cui imparare a guardare le cose
con occhi diversi.  (Giusti, Nardini, 2004)

Modalità di accesso al gruppo
I partecipanti accedono al gruppo a seguito di un colloquio psicologico preliminare. 

Dove e quando
Gli incontri del gruppo hanno cadenza settimanale per la durata di 90 minuti, ogni venerdì presso la nostra sede di via Nicola Fabrizi n. 60 a Pescara.

Per informazioni e contatti
Dott.ssa Ivana Siena 391.35.19.017
Dott. Roberto Prattichizzo 335.16.07.020

Oppure scrivere una mail a gruppiapescara@gmail.com


martedì 2 febbraio 2016

L'APPETITO VIEN MANGIANDO

L’appetito vien mangiando.
Prendersi cura di se stessi, un concetto semplice per alcuni ma difficile per altri. Ci sono diversi modi attraverso cui una persona può prendersi cura di sé: ad esempio curando il proprio aspetto fisico o  curando il proprio abbigliamento, per cercare di apparire sempre alla moda e impeccabile agli occhi degli altri. La cura di sé però, non implica solo la cura del proprio aspetto esteriore ma anche la cura del proprio aspetto interiore. Tale cura avviene laddove l’individuo seleziona risorse che lo aiutino a nutrire al meglio il proprio corpo. Le persone nel corso della propria vita sono libere di nutrire il proprio organismo  con “alimenti” positivi o negativi. Per alimenti in questo caso si fa riferimento a tutte quelle risorse positive o negative, che andrebbero a favorire o ostacolare il proprio benessere psicofisico. Ma come si fa ad arricchirsi per lo più di risorse positive che negative? Per alcune persone risulta facile prendersi cura dei propri bisogni, amarsi, non trascurarsi, per altre no. Quante volte da piccoli ci è capitato di essere rimproverati dai nostri genitori per ciò che mangiavamo, perché quegli “alimenti” non sani avrebbero potuto farci male. Quanti di noi non hanno dato peso a quelle parole in quel momento, ignorando i propri genitori e ignorando a loro volta loro stessi. Forse eravamo troppo piccoli o forse facevamo finta di esserlo, ma ora da adulti non si riesce più a far finta di nulla di fronte a certe cattive abitudini.  Talvolta mi chiedo: ”perché è così difficile assumere “alimenti” sani che potrebbero fare solo del bene, ma è più facile cadere in tentazione mangiandone di scadenti? 


Credo che tale difficoltà derivi dal fatto di soffermarsi ben poco su cosa vogliamo realmente, su cosa sia meglio per noi e di cosa realmente abbiamo bisogno.
E’ difficile guardarsi dentro per scoprirlo, alle volte si ha paura di prendere quello specchio accanto al comodino per guardare la propria immagine riflessa. Forse per paura di vedere come siamo  o forse perché abbiamo paura di mostrarci agli altri per come siamo. A tutti sarà capitato di nascondersi da qualche specchio che potesse in quel dato momento riportarci alla realtà. Però quando riusciamo a trovare il coraggio di prenderlo in mano e di guardare all’interno di esso, scopriamo il bello che c’è in noi, quell’immagine che tenevamo nascosta per paura di confrontarci con il mondo esterno. Talvolta fa paura prendere in mano quello specchio per guardarsi, perché si tende a pensare che l’immagine riflessa non sia abbastanza bella per gli altri, che quell’immagine non sia all’altezza degli altri. Crediamo che la soluzione più semplice sia allontanare questa paura, scacciare quell’incessante pensiero che ci rimbomba nella testa e scappare laddove ci è possibile per nascondere noi stessi. Attraverso l’esperienza di gruppo che ho vissuto all’interno del mio percorso universitario, mi sono ritrovata ad affrontare una situazione nuova, una situazione che non avevo mai avuto il coraggio di affrontare prima. Il dovermi confrontare con persone diverse, il dover dire la mia opinione davanti agli altri, il dover lavorare in gruppo, mi terrorizzava.
Mi sentivo confusa, era come se stessi combattendo con due lati di me: da una parte ero spaventa ma dall’altra ero curiosa, avevo voglia di mettermi in gioco, di sperimentarmi e di vedere cosa sarebbe accaduto se avesse avuto la meglio questo lato di me. Ho avvertito dentro di me la voglia di cambiare, di uscire allo scoperto, di smettere di stare male solo per una paura, una paura che alimentavo solo io.
Ho deciso così di affrontare questa paura, ho deciso di ascoltarla, ho deciso di trasformare questa paura in coraggio, infondendomi fiducia e accogliendo anche la fiducia da parte del mio gruppo, il quale mi ha accompagnato e sostenuto in questo percorso di svolta. Quest’azione  per me ha rappresentato davvero una vera e propria svolta. Ho ripetuto a me stessa che ce l’avrei fatta, che io non ero e non valevo meno degli altri e che se invece di criticare gli altri davo un valore ad ognuno di loro, l’avrei guadagnato anche io. Ho deciso di rischiare per stare bene con me stessa e per far si che potessi esserlo anche con gli altri, cosa di cui prima mi privavo. Ognuno di noi ha paura del cambiamento, perché non sa mai cosa aspettarsi e come potrebbe reagire di fronte ad una situazione nuova. Il cambiamento  però permette a noi essere umani di evolverci, di migliorarci con noi stessi e con gli altri. Ciò possiamo farlo ascoltando noi stessi, ascoltando le nostre emozioni, mostrandole come nel caso della paura, per poter fronteggiare al meglio le situazioni che il mondo esterno ci pone. Ma possiamo anche farlo permettendo ad ognuno di noi di alimentarsi di risorse positive e di nutrire anche gli altri di tali risorse, permettendo così ad ognuno di noi di star bene con se stesso.



Concludo citando una frase tratta dal libro del Picccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry:


“é una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. E’ una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttare via tutte le possibilità di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza.Per ogni fine c’è un nuovo inizio.”

Dottoressa Ortensia Posa laureata in Psicologia e tirocinante presso l'Obiettivo Famiglia Onlus.

giovedì 28 gennaio 2016

La "Peer Education": l'educazione tra pari


La Peer Education è una innovativa metodologia da utilizzare come nuova risorsa nell’ambito della prevenzione all’interno della scuola. E’ una strategia educativa volta ad attivare un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, di emozioni e di esperienze da parte di alcuni membri di un gruppo ad altri membri di pari status. I destinatari vengono considerati in modo completamente nuovo: non più utenti da istruire perché carenti di informazioni, ma bensì soggetti portatori di risorse, conoscenze, capacità, potere.
I giovani possono allora partecipare all’intervento in modo attivo, anche stabilendo la direzione e le linee della prevenzione.
La Peer Education agisce sulla scuola, sul contesto, sui giovani e sul contesto in cui è inserito l’individuo.



La Peer Education agisce su ciò che caratterizza il gruppo classe:
- Schemi comunicativi ridondanti
- Rapporti costretti entro ruoli
- Emozionalità agita e non pensata

IPeer educator utilizzano come strumento una comunicazione paritaria. La finalità della comunicazione dei Peer è quella di intervenire sull’altro, di “influenzarlo”, di “persuaderlo”, e di comunicargli qualcosa che, dopo lo scambio comunicativo, genererà una situazione nuova. Un clima umano positivo è un fattore fondamentale per il buon esito di qualsiasi organizzazione e sistema sociale.
I Peer educator agiscono come agenti di cambiamento. Il gruppo costituito da Peer e studenti non è strutturato secondo gerarchie poiché nessun Peer assume una funzione autoritaria (il peer assume il “compito” di facilitare la discussione) e di tipo formale. All’inizio i Peer proporranno soltanto la disposizione in circolo delle sedie, fondamentale per garantire una comunicazione realmente circolare con tutti, e per facilitare quel cambiamento di contesto necessario a stimolare la comunicazione ed un atteggiamento di tipo esplorativo. Il gruppo stabilisce insieme gli argomenti da trattare, non si interrompere chi parla, si accetta qualsiasi punto di vista,non si denigra o deride nessuno, si gioca insieme, ci si diverte insieme.
L’obiettivo principale dell’incontro del gruppo classe con i Peer è quello di favorire la conoscenza reciproca e la comunicazione o la cooperazione tra tutti i membri del gruppo classe, creare un clima sereno di reciproco rispetto in cui ognuno soddisfi il proprio bisogno sia di appartenenza che di individualità. Risolvere i conflitti, analizzare i problemi e trovare insieme le possibili soluzioni giocando, simulando situazioni possibili. Tutto ciò è importante anche per imparare a discutere insieme ascoltando senza interrompere, accettando tutte le opinioni , sentendosi liberi di esprimere la propria, in un reciproco arricchimento e confronto.


I compiti dei Peer sono: osservare come gli alunni si dispongono in cerchio, se tutti sono coinvolti nella discussione, se tutti si sentono a proprio agio, a chi sono dirette le comunicazioni, come si svolgono gli interventi. Tali osservazioni sono importanti per verificare i rapporti all’interno del gruppo, rilevare il cambiamento che tale iniziativa provoca nei ragazzi, per innescare il cambiamento.
Il lavoro dei Peer è centrato sul miglioramento dei rapporti fra i membri. I Peer dovranno sostenere i ragazzi più timidi e”smorzare”quelli più aggressivi, facilitare la comunicazione, chiedendo chiarimenti in caso di interventi confusi, evidenziando i pareri emersi senza tralasciarne nessuno. Ognuno deve mettere in gioco le proprie potenzialità, competenze e risorse e capire che dall'altro diverso da  si può apprendere e condividere il meglio che è in ognuno. Ogni ragazzo deve riconoscere nel compagno un ruolo, un valore ed una dimensione positiva.
L’atmosfera scolastica è il risultato dell’interagire reciproco dei membri dell’intera comunità scolastica, e la sua qualità va considerata come una conseguenza del modo con cui i diversi membri della scuola si relazionano reciprocamente. I Peer servendosi di giochi psicologici o utilizzando strumenti creati da loro stessi creano un clima rilassato. I ragazzi sono aiutati a sviluppare le proprie capacità relazionali, le competenze comunicative ed organizzative, la creatività e la disponibilità al cambiamento: competenze necessarie ad affrontare gli eventi della vita.
Il corpo docente tramite strategie di formazione e cooperazione è coinvolto nei progetti di Peer Education, in modo che il tema della prevenzione al disagio giovanile venga incorporato all’interno dei contenuti scolastici stabilmente.


mercoledì 16 dicembre 2015

Circle time: un nuovo modo di condividere!

Al giorno d’oggi gli insegnanti sono chiamati a fronteggiare situazione all’interno del gruppo classe non facili da gestire, poiché si confrontano spesso con difficoltà quali:
-     difficoltà di ascolto (gli alunni si distraggono o non rispettano i turni di parola);
-  gestione di alunni con comportamenti più o meno sintomatici (che esprimono, quindi, un bisogno di “farsi vedere” tanto dagli insegnanti quanto dai compagni);
- alunni poco partecipativi (che tentano di “passare inosservati” o di omologarsi).

Il modello di insegnamento frontale che pone al centro il docente e che offre a tutti gli alunni gli stessi stimoli è inefficace perchè non permette a ciascun alunno di essere coinvolto adeguatamente. Per tale ragione è opportuno utilizzare metodologie didattiche ed educative inclusive che favoriscano le competenze individuali, valorizzandone le risorse e le differenze di ciascuno. Una di queste è il Circle Time.

E’ un metodo di lavoro pensato per facilitare la comunicazione e la conoscenza reciproca all’interno di un gruppo. La scuola è il contesto ideale in cui può essere applicato perché:
-     consente agli alunni di conoscersi meglio, valorizzando le loro differenze e consente anche agli insegnanti di conoscere meglio il gruppo classe;
-     facilita l’inclusione;
-     può essere uno strumento di prevenzione e gestione della conflittualità.

Come si svolge?



Come illustrato nelle figure, gli alunni si dispongono per terra o sulle sedie in cerchio,lasciando spazio al centro, di modo che ciascuno possa essere visto e possa vedere gli altri, sotto la guida di un adulto. La comunicazione avviene attraverso regole stabilite all’inizio e finalizzate a promuovere l’ascolto attivo e la partecipazione di tutti. Il circle time ha una cadenza regolare e una durata fissa (75min circa).
All’interno del gruppo possono essere proposte delle attività strutturate guidate dall’insegnante oppure lasciata libertà di discussione (a seconda della fase del gruppo e delle specifiche esigenze della classe) su tematiche proposte dagli stessi alunni. All’interno del cerchio l’insegnante ricopre il ruolo di facilitatore della comunicazione, evitando di assumere posizioni centrali (per esempio fornendo soluzioni o risposte agli alunni). E’ importante che ci sia una programmazione, ossia che il gruppo docente senta questa attività come parte integrante della vita di classe: una strategia che può aiutare gli insegnanti a lavorare meglio è proprio l’organizzazione di spazi in cui condividere l’esperienza in corso che, quindi, diventerà un’opportunità per tutti. In questo contesto lo psicologo potrebbe apportare il suo specifico contributo, ossia nel ruolo di “coordinatore” degli insegnanti, senza frapporsi nel rapporto diretto tra docenti e alunni. 
L’obiettivo ultimo dell’uso del circle-time è facilitare la cooperazione fra tutti i membri del gruppo-classe, la creazione di uno spazio in cui ciascuno è incluso e chiamato a partecipare, sebbene con le proprie modalità e i propri tempi, in modo da soddisfare sia il proprio bisogno di appartenenza che di individualità, elementi che la psicologia riconosce come fondamentali per l’equilibrato sviluppo psichico della persona.

giovedì 3 dicembre 2015



BULLISMO OMOFOBICO: UNA NUOVA FORMA DI BULLISMO








Il bullismo omofobico è una nuova di bullismo diffusa negli ultimi anni  soprattutto nell’ambito scolastico.
E’ caratterizzata da atteggiamenti discriminatori nei confronti di adolescenti omosessuali. Tale fenomeno è particolarmente evidente all’interno dell’ambito scolastico, il quale contribuisce, insieme all’ambiente familiare, alla formazione dell’identità dell’adolescente. Per constatare e per indagare più nello specifico tale fenomeno, ho intrapreso un progetto sperimentale, al fine della tesi magistrale, che prevedesse la raccolta di dati attraverso la somministrazione di diversi questionari, volti a mettere in luce atteggiamenti tipici del bullismo, opinioni pregiudizievoli o meno relative al tema dell’omosessualità, funzionamento familiare e condotte morali. La ricerca ha coinvolto 165 studenti delle scuole secondarie della città di Chieti, i quali si sono mostrati collaborativi e partecipi ai fini del progetto sperimentale.
Da tale ricerca non è emerso un elevato pregiudizio nei confronti dell’omosessualità anche se, a mio parere potrebbe essersi verificato il fenomeno della “desiderabilità sociale”, cioè i ragazzi potrebbero aver dato risposte non del tutto sincere per rendersi desiderabili agli occhi dello sperimentatore. Ciò potrebbe essere accaduto in quanto i ragazzi, prima della somministrazione dei questionari, sono stati informati sul tema della ricerca. Sono emersi però due aspetti interessanti: l’omosessualità è ritenuta come qualcosa che l’individuo sceglie; l’omosessualità femminile viene maggiormente accettata perchè considerata, soprattutto dai maschi, come un atteggiamento più facilmente  tollerabile.
La non accettazione di questi atteggiamenti omosessuali maschili, si ripercuoterebbe anche negli atti discriminatori di cui i ragazzi fanno cenno all’interno dei questionari e si verificherebbe in larga misura soprattutto in una dimensione in cui tale fenomeno è difficile da contrastare: internet. Ciò fa scaturire  nei ragazzi un forte turbamento e una paura per non essere accettati per come sono. Questo rifiuto si manifesta fortemente anche all’interno dell’ambito familiare, dove la maggior parte di loro riferisce di riscontrare una difficoltà nella comunicazione con i propri genitori. Tale difficoltà provocherebbe nell’adolescente una chiusura a livello emotivo e un’insoddisfazione affettiva che potrebbe portarlo a ricercare affetto e comprensione al di fuori del contesto familiare.
La motivazione che mi ha spinto ad intraprendere tale ricerca è legata alla questione che gli adolescenti vengono spesso abbandonati a loro stessi laddove dovrebbero essere sostenuti ed indirizzati lungo un cammino di formazione verso l’individualità e la vita adulta. Per far ciò sarebbe opportuno creare una stretta alleanza tra scuola e famiglia e uno spazio di condivisione e di interazione che possa accrescere l’autostima dei ragazzi e rafforzare l’alleanza all’ interno del gruppo classe. Ascoltare i dubbi, le paure e le idee dei ragazzi aiuta loro ad emergere, a non isolarsi e a credere che nessun traguardo sia impossibile da raggiungere e che non si è mai da soli nell’affrontarlo. 


Dott.ssa Ortensia Posa 
Laureata alla Magistrale in Psicologia dello sviluppo presso l'Università G. D'annunzio Chieti-Pescara e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus.