lunedì 12 settembre 2016

Problemi con il gioco d'azzardo???


Il gioco è un momento importante per ogni persona, giocavamo da piccoli per divertirci e sviluppare più velocemente le nostre capacità, giochiamo da grandi per rilassarci e liberare la mente.
È per divertimento che molte persone praticano il gioco d’azzardo: slot machine, gratta e vinci, poker, bingo, lotto, scommesse sono diffusissimi intorno a noi.
Ma dietro questo tipo di gioco si nasconde un pericolo: il rischio di una dipendenza capace di avere conseguenze negative per chi gioca e per i suoi familiari. È come una febbre che sale rapidamente e travolge tutto e tutti, senza controllo. Succede molto più spesso di quanto si crede, ma è importante prendere coscienza del problema e sapere che è possibile risolverlo.
In questo e nel post successivo troverai informazioni utili per conoscere i rischi del gioco d’azzardo, capire che giocatore sei o è la persona che hai a cuore, prevenire e soprattutto curare la dipendenza. Così il gioco potrà continuare ad essere un sano divertimento, per tutti.

Tutte le fasi di una febbre che sale.
Non c’è nulla di problematico nel gioco d’azzardo, finché rimane un piacevole passatempo occasionale o anche abituale. Succede, però, che la voglia di giocare si trasformi in un bisogno irrefrenabile che procura dipendenza. Il giocatore diventa quindi patologico trascinando sé e la propria famiglia in un vortice di problemi sempre più grandi. Di seguito un profilo per capire il confine tra un giocatore sano e un giocatore patologico.

L’origine. Perché si gioca d’azzardo?
Le motivazioni che spingono a provare il gioco d’azzardo possono essere tante e diverse.
• Semplice divertimento
• Stare in compagnia
• L’eccitazione del rischio
• Sfidare la fortuna e il destino
• Dimostrare la propria bravura
• Contrastare la depressione
• Evadere dalla routine
• Sognare una vita migliore
• Vincere denaro e migliorare la propria situazione finanziaria o, addirittura, cambiare vita.

Il contagio. Perché si continua a giocare?
Spesso, dietro la reiterazione del gioco, ci sono situazione scatenanti.
• C’è stata una vincita importante
• Si spera di influenzare la realtà e di vincere ancora ricorrendo al pensiero magico
• Si accumulano perdite su perdite.

La febbre. Quando il gioco d’azzardo diventa dipendenza?

Dietro la dipendenza da gioco, ci sono comportamenti e situazioni ricorrenti.

• Il giocatore pensa al gioco in ogni momento della giornata, diventando nervoso, ansioso, irritabile e depresso
• Il giocatore spesso diventa superstizioso, bugiardo e distratto
• Le perdite finanziarie diventano consistenti e per continuare a giocare il giocatore richiede denaro in prestito, fa ipoteche, comincia a vendere beni di famiglia
• Anche a lavoro diminuisce la resa e il livello di attenzione
• La voglia di stare con gli altri diminuisce sempre di più
• Le relazioni in famiglia diventano tese
• Nel giocatore si manifestano i più consueti disturbi legati allo stress: dolori allo stomaco, ulcere, coliti, ipertensione, malattie cardiache, insonnia, perdita dell’appetito, emicranie.

I sondaggi dimostrano che i tentativi di suicidio tra i giocatori d’azzardo patologici sono fino a 4 volte superiori rispetto alla media della popolazione.

Dal gioco alla dipendenza in 5 fasi.
Il percorso di un giocatore patologico attraversa diverse fasi, di cui è importante prendere coscienza. Fondamentale è la scelta di mettersi in gioco per uscirne vincente.

1. Fase vincente o della luna di miele.
Il primo contatto con il gioco avviene solitamente insieme a parenti o amici semplicemente con l’obiettivo di divertirsi. L’emozione di una grossa vincita fa dimenticare problemi e preoccupazioni. La sensazione di vincere di frequente aumenta l’eccitazione legata al gioco da cui consegue l’incremento del denaro scommesso e delle giocate.

2. Fase perdente.
Il giocatore continua da solo mentre il suo pensiero è sempre più monopolizzato dal gioco. Racconta le prime menzogne a familiari, amici e colleghi. Comincia a contrarre debiti senza riuscire a risanarli. Diventa sempre più
irritabile e agitato e tende a isolarsi dagli altri. Si innesca il meccanismo della rincorsa alla perdita, quindi si gioca sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perso.

3. Fase della disperazione.
Il giocatore è diventato patologico. Ha completamente perso il controllo del suo modo di giocare. Può provare un senso di panico e prestarsi ad azioni illegali. Le persone intorno non hanno più fiducia in lui, non gli credono e questo lo rende ancora più aggressivo.

4. Fase della perdita della speranza/crollo.
Il giocatore patologico è sempre più isolato. A questo punto possono manifestarsi problemi con la giustizia, crisi coniugali e divorzi, perdita del posto di lavoro, ricorso all’usura e, in alcuni casi, pensieri e tentativi di suicidio.

5. Fase della risalita.
Il giocatore patologico si rende conto della gravità della sua dipendenza e decide di chiedere aiuto.

Per saperne di più riguardo questa tematica partecipa al seminario gratuito che si terrà il giorno 8/10/2016 presso Obiettivo Famiglia Onlus. Clicca sul link per maggiori info Seminario La VITA in GIOCO


http://www.psichesoma.com/problemi-con-il-gioco-dazzardo/

martedì 2 agosto 2016

5 ferite emotive dell’infanzia che persistono quando siamo adulti



I problemi che abbiamo vissuto durante l’infanzia predicono come sarà la qualità della nostra vita da adulti. Questi, inoltre, possono influire sul modo di agire che un domani i nostri figli adotteranno e su come noi affronteremo le avversità.
In qualche modo, a partire da queste ferite emotive o esperienze dolorose dell’infanzia, plasmeremo una parte della nostra personalità. Vediamo di seguito quali sono le cinque ferite emotive secondo Lisa Bourbeau...



1- La paura dell’abbandono

La solitudine è il peggior nemico di chi ha vissuto l’abbandono durante l’infanzia. Ci sarà una costante attenzione alla carenza, che porterà chi ne ha sofferto ad abbandonare il suo partner o i suoi progetti quando ancora è presto, per paura di essere loro stessi quelli che verranno abbandonati. È una sorta di “ti lascio prima che sia tu a lasciare me”, “nessuno mi appoggia, non posso sopportare tutto questo”, “se vai via, non tornare”…
Le persone che hanno vissuto esperienze di abbandono durante l’infanzia, dovranno lavorare sulla loro paura della solitudine, sul timore di essere rifiutati e sulle barriere invisibili del contatto fisico.
Le ferite causate dall’abbandono non sono facili da curare. Sarete voi stessi a prendere coscienza di quando le ferite inizieranno a rimarginarsi e quando il timore dei momenti di solitudine sparirà e sarà sostituito da un dialogo interiore positivo e speranzoso. 

2- La paura del rifiuto 

Essendo una ferita molto profonda, implica il rifiuto interiore. Con interiore ci riferiamo a ciò che abbiamo vissuto, ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti.
Quando appare, può influire su molteplici fattori, come il rifiuto dei genitori, della famiglia o di se stessi. Genera sentimenti di rifiuto, pensieri negativi, come quello di non essere desiderati e porta alla svalutazione di se stessi.
La persona che soffre questa dolorosa esperienza sente di non meritare l’affetto né la comprensione di nessuno e si isola nel suo vuoto interiore per paura di essere rifiutato. È probabile che, se avete sofferto di questi problemi durante l’infanzia, sarete persone “sfuggenti”. Per questo motivo, è indispensabile lavorare sul proprio timore, sulle proprie paure interiori e sulle situazioni che generano panico.
Se si tratta del vostro caso, pensate a voi stessi, rischiate e prendete decisioni per voi stessi. Vi disturberà sempre meno il fatto che la gente si allontani e non la prenderete sul personale se, a volte, si dimenticheranno di voi. 

3- L’umiliazione 



Questa ferita si genera quando in diversi momenti sentiamo che gli altri disapprovano ciò che facciamo e ci criticano. Potreste anche generare questo problema nei vostri figli dicendo loro che sono maleducati, pesanti e cattivi, così come se esponete i loro problemi davanti agli altri: questo distrugge l’autostima infantile.
In questo modo, il tipo di personalità che si genera con frequenza è una personalità dipendente. Potreste aver assunto un atteggiamento da “tiranni” ed egoisti come meccanismo di difesa, e potreste arrivare ad umiliare gli altri come scudo per proteggere voi stessi.
Se avete vissuto queste esperienze, dovrete lavorare sulla vostra indipendenza, sulla vostra libertà, sulla comprensione delle vostre necessità e dei vostri timori timori, così come sulle vostre priorità. 

4- Il tradimento e la paura di fidarsi

Questi sentimenti sorgono quando un bambino si è sentito tradito, specialmente da uno dei suoi genitori, che non ha rispettato le promesse fatte. Questo fa sì che la sfiducia che deriva da questo problema, possa trasformarsi in invidia e in altri sentimenti negativi, come la sensazione di non meritare le cose promesse o ciò che gli altri hanno.
Aver sofferto di questi problemi durante l’infanzia crea persone sospettose e che vogliono sempre tenersi tutto stretto. Se durante la vostra infanzia avete sofferto una situazione simile, è probabile che avvertiate la necessità di esercitare un certo controllo sugli altri, che si giustifica solitamente con un carattere forte.
Queste persone confermano i loro errori per il modo in cui agiscono. Hanno bisogno di lavorare sulla pazienza, sulla tolleranza e sul saper vivere, come sull’imparare a stare soli e ad affidare le responsabilità.

5- L’ingiustizia 

Ha origine nei contesti in cui le persone che si occupano dei bambini sono fredde ed autoritarie. Durante l’infanzia, le esigenze esagerate e che passano i limiti generano sentimenti di inefficienza e di inutilità, tanto quando si è bambini come quando si è adulti.  
La conseguenza diretta sulla condotta di chi ne ha sofferto sarà la rigidità, poiché queste persone cercheranno di essere molto importanti e di acquisire molto potere. È probabile, inoltre, che si sia creato un fanatismo per l’ordine e per il perfezionismo, così come l’incapacità di essere sicuri sulle decisioni che si prenderanno.
Bisogna lavorare sulla sfiducia e sulla rigidità mentale, cercando di essere il più flessibili possibile e cercando di credere negli altri.
Adesso che conoscete le cinque ferite dell’anima che possono influenzare il vostro benessere, la vostra salute e la vostra capacità di svilupparvi come persone, potete cominciare a guarirle.

giovedì 28 luglio 2016

L’importanza di una buona comunicazione



Siamo soliti ascoltare o leggere su quanto sia importante mantenere una buona comunicazione, sia in ambito lavorativo, familiare, sociale o di coppia. Tuttavia, siamo consapevoli di tutto quello che comporta il processo di comunicazione?
Non sempre troviamo le parole giuste, il modo di farci capire o di trasmettere quello che desideriamo comunicare, persino di trasformare in parole quello che pensiamo o proviamo. Spesso ci sembra una vera sfida e talvolta è come se non fossimo noi, bensì il nostro interlocutore, a mettere una barriera affinché il nostro messaggio non giunga.
Non siamo consapevoli di tutti gli ingranaggi che prendono parte al processo di comunicazione. Ci dimentichiamo dell’importanza di comunicare con gli altri in modo chiaro e semplice, senza pensare all’impatto che possono avere le nostre parole ed i nostri gesti.
Supponiamo, diamo per scontato, facciamo ipotesi personali su avvenimenti o persone, sovraintendiamo, diffamiamo, aggiungiamo oppure omettiamo dettagli all’informazione che abbiamo ricevuto, etc. Tuttavia, come è la nostra comunicazione?

Creiamo realtà a partire dal linguaggio

Siamo come scultori che, in base alle proprie caratteristiche, esperienze e peculiarità, creano o distruggono l’informazione che formulano o ricevono. Bisogna considerare che gli esseri umani creano realtà tramite il proprio linguaggio.
Quando una persona cerca di trasmettere un’immagine, un sentimento, un concetto o un’idea, probabilmente l’interlocutore non riceve lo stesso. Ci avevate mai pensato? La causa della maggior parte dei malintesi è la mutua convinzione delle persone di parlare dello stesso argomento, quando l’idea che hanno al rispetto è completamente diversa.
Coppie che parlano d’amore, ma hanno punti di vista diversi al riguardo. Persone che condividono un’amicizia avendo, però, caratteristiche diverse. Non avevate mai pensato che, forse, quando conversate o discutete con una persona, potete avere visioni o dare interpretazioni diverse sul tema in questione?
Nelle conversazioni con gli altri, le parole possono essere le stesse, ma il contenuto del tutto distinto. La superficie e la profondità possono ospitare un rapporto diverso da quello che immaginavate. Bisogna pensare a quello che si dice e come si dice per ottenere una mappa precisa della nostra comunicazione con gli altri.

Domandare invece di supporre

Quando abbiamo una conversazione con un’altra persona, è fondamentale chiedere all’altro cosa significa per lui/lei l’argomento su cui si conversa. 
Cos’è per te l’amore? Cos’è per te una relazione di coppia? Cosa significa per te essere leale o noioso? Cos’è per te la felicità o la tristezza? E, allo stesso modo, noi dobbiamo spiegare il nostro punto di vista. In caso contrario, daremo per scontato che l’altra persona condivide il nostro punto di vista e che pensa come noi. Sarebbe una grande casualità, no?
Ci risparmieremmo molti conflitti e malintesi se, invece di supporre, chiedessimo al nostro interlocutore a cosa si riferiva con la sua idea o il suo ragionamento.
Ognuno ha alle spalle un’educazione, certe esperienze, una formazione, determinate caratteristiche personali che impediscono di condividere sempre le stesse opinioni o sentimenti simili. Sono gli occhiali personali con cui sentiamo, interpretiamo, pensiamo ed agiamo nel mondo. Ognuno di noi indossa un modello diverso.

Comunichiamo tramite storie


Perché non pensare che quello che comunichiamo è come un racconto? Quello che ti comunica è come un racconto, i fatti vissuti dalla propria esperienza rappresentano una versione e quello che l’altro comprende è un’altra versione dello stesso racconto in base alle sue caratteristiche. L’altro ascolta, ma capisce ed interpreta in base alle sue peculiarità.
Di certo vi sarete resi conto del fatto che, a volte, quando abbiamo raccontato qualcosa a qualcuno e questa persona l’ha comunicato ad una terza, non ha trasmesso esattamente quello che abbiamo detto noi. Ogni persona puntualizza gli aspetti importanti in base alle proprie esperienze. Per questo motivo, ogni persona è responsabile di comunicare la propria storia.
Quando diciamo che l’altro non ha ragione, quello che esprimiamo, in realtà, è che non la pensa come noi, o no? Rifletteteci…

mercoledì 20 luglio 2016

PSICOLOGIA E CANCRO: L'IMPORTANZA DELLA TERAPIA DI GRUPPO

Il cancro è un qualcosa capace di paralizzare, di annientare, una minaccia alla propria identità ed integrità, al proprio equilibrio emotivo; è un fenomeno in grado di scatenare una catastrofe esistenziale, di stravolgere vite umane, non solo a livello fisico ma anche psicologico, non è possibile infatti separare il corpo dalla sfera psichica.


Nell’immaginario individuale e collettivo il cancro continua ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, angoscia, impotenza, morte sicura (Costantini, Grassi e Biondi, 1998). Dopo una diagnosi di cancro certamente tutto cambia di significato: le relazioni familiari, sociali e professionali, il rapporto con il proprio corpo, i propri valori, i significati attribuiti alla sofferenza e alla morte.
Di fronte a questi inevitabili cambiamenti può generarsi un persistente stato di confusione, un senso di impotenza, di disequilibrio e di solitudine, il tutto spesso aggravato dalle reazioni di parenti ed amici. La popolazione oncologica è soggetta di fatto ad un alto rischio psicopatologico, dal momento che si trova ad affrontare situazioni a dir poco stressanti come la diagnosi, la debilitazione, la mutilazione, le terapie aggressive; senza dimenticare poi lo stato di dipendenza che si può generare, l’allontanamento forzato o non dal proprio ambiente di vita ed infine il rischio di morte.
Il paziente oncologico ha bisogno così di essere curato in tutti gli aspetti della sua patologia; è opportuno prendersi cura dei correlati psicologici che la malattia porta con sé, vanno battute tutte le strade che conducono al miglioramento della qualità di vita dei pazienti, circoscrivendo il rischio di effetti psicopatologici che potrebbero aggravare il quadro clinico. 

La psicologia in questo modo si fa spazio nell’oncologia, è sempre più determinata ad assumere un ruolo rilevante nell’assistere i pazienti affetti da cancro. Le consistenti ricerche incoraggiate in questo ambito indagano oltre alla presenza di disturbi psicologici e alla valutazione della qualità di vita, anche le strategie di informazione, le tecniche di sostegno psicologico, i modelli di supporto sociale e quanto ancora rimane da scoprire. 
Un aiuto psicologico diviene così importante per gestire gli eventi stressanti scaturiti dalla malattia, per contenere i fattori emozionali, le reazioni psicologiche del paziente che potrebbero influenzare negativamente il decorso della malattia fisica stessa. Il bisogno di aiuto psicologico risulta molto elevato dal momento in cui il disagio psichico secondario alle patologie oncologiche investe circa la metà dei pazienti ed un terzo dei familiari. 

In presenza di gravi malattie infatti, diviene molto importante esaminare l’emergere di problemi connessi all’affrontare la malattia ed il suo trattamento, diventa indispensabile aiutare le persone a vivere fronteggiando e gestendo le conseguenze personali, sociali, professionali della patologia; la paura di ricadute o di morte, lo stress familiare, l’isolamento sociale, la riduzione di energie, l’alterazione dell’immagine corporea (Spiegel e Giese-Davis, 2002) non sono certo inoffensivi.
Secondo alcune ricerche lo stress emotivo e la sua gestione potrebbero essere in relazione all’incidenza del cancro ed al suo avanzare gli stati emotivi, soprattutto quelli estremi e cronici potrebbero influenzare gli aspetti fisiologici e le abilità di coping. È importante quindi indagare i possibili effetti fisiologici dello stress sulla progressione della malattia così da sviluppare e valutare nuovi trattamenti. (Spiegel e Giese-Davis, 2002). La diagnosi e il trattamento di cancro scatena un range di emozioni come ansia, paura, tristezza ed angoscia. La gestione di esse rappresenta un problema non marginale per i pazienti e fornisce un’opportunità terapeutica. (Spiegel e Giese-Davis, 2002).

Le terapie psicologiche assistono il paziente oncologico in ogni fase della malattia, le dimensioni psicologiche vengono colte dalla diagnosi alla fine del trattamento. Questi interventi hanno lo scopo di diminuire nel paziente oncologico i sentimenti di alienazione, isolamento, impotenza, il sentirsi trascurato. 

Attraverso il trattamento si cerca di ridurre l’ansia, di chiarire percezioni ed informazioni errate che talvolta possono essere pericolose; si aiuta le persone a sentirsi meno inette e sfiduciate, incoraggiandole ad acquisire maggiore responsabilità e rispondenza ai trattamenti medici. (Fawzy and Fawzy, 1998). Infatti come sottolinea Toscano (2001), le più frequenti espressioni dirette della crisi del malato oncologico sembrano essere: ilrifiuto, come negazione della propria malattia ed ostacolo alla compliance in fase terapeutica; l’ansia, come paura della solitudine, della morte, della perdita di capacità fisiche e possibilità affettive; la depressione come rassegnazione, perdita di motivazioni, emozioni tale da portare ad un declino psicofisico devastante.
Davanti alla crescente consapevolezza di questi problemi associati ad una così grave malattia ed al suo trattamento, si è sviluppata una varietà di interventi supportivi per pazienti e familiari. Tali terapie hanno positivi effetti psicologici e fisiologici. La loro efficacia dipende dalla formazione ed abilità del terapeuta, dal rapporto di quest’ultimo con i pazienti, dalla natura e dal contenuto dell’intervento, dagli obiettivi principali e dagli esiti previsti.
La letteratura in merito si focalizza su quattro principali tipologie di interventi -behavioural therapy (includendo rilassamento, biofeedback e ipnosi); educational therapy (includendo formazione in abilità di coping e fornisce informazioni così da aumentare il senso di controllo del paziente); psychotherapy (includendo counselling); e support groups (aiutano le persone ad esprimere le loro emozioni)- evidenziando nel tempo un incremento della loro efficacia (Fallowfield, 1995).

La psicoterapia non rappresenta una terapia alternativa, ma uno strumento importante per alleviare la sofferenza psicologica dei pazienti e dei familiari determinata dalla malattia (Costantini, Grassi e Biondi, 1998).

Meyer and Mark (1995) hanno classificato i risultati di uno studio su diversi interventi psicosociali in cinque categorie principali:

1. Adattamento emozionale (stato dell’umore, autostima, locus of control, negazione, repressione);
2.   Adattamento funzionale (socializzazione, ritorno al lavoro);
3.   Sintomi legati alla malattia o al trattamento (nausea, dolore);
4.   Esiti medici (risposta del tumore, avanzare della malattia);
5.   Esiti globali (combinazione delle 4 precedenti categorie).

Dopo gli interventi terapeutici proposti sono stati ottenuti significativi effetti per tutte le categorie tranne per gli esiti medici.
Un trattamento che ha riscosso particolare attenzione nella psiconcologia è la terapia di gruppo.

I problemi fisici e psicologici incontrati da pazienti affetti da cancro sono numerosi ed unici; queste persone sembrano trarre un qualche beneficio dai programmi di intervento psicologico, in particolare quelli che impiegano come formato il gruppo.


In oncologia si possono impiegare gruppi psicoterapeutici condotti da professionisti, basati sulla comunicazione verbale, in cui il singolo membro è oggetto del trattamento e il gruppo diviene il principale fattore terapeutico. (Costantini e Grassi, 2004). Secondo alcune prospettive teoriche il gruppo assume le vesti di un microcosmo sociale con significative proprietà terapeutiche in sé; all’interno di esso si maturano esperienze di apprendimento interpersonali che rappresentano un forte meccanismo di cambiamento (Costantini e Grassi, 2002).
A partire dalla seconda metà del Novecento in America sono nati i primi gruppi terapeutici, considerato il successo ottenuto dai gruppi di alcolisti e di malati mentali. Con la creazione di gruppi di pazienti neoplastici si è cercato di prevenire problemi come ansia, depressione, dando informazioni, consigli e supporto emozionale ai membri.
Il gruppo in oncologia, in particolare quello di tipo supportivo, sembra avere maggior efficacia clinica rispetto ad interventi individuali; non si può certo negare che esso migliori le capacità di reazione alla malattia mediante l’osservazione delle modalità di reazione dei membri del gruppo. Quest’ultimo diviene il contesto di condivisione ed analisi degli ostacoli comuni, sviluppando un senso di universalità che allevia la sensazione di solitudine e di impotenza. Questo intervento propone come area focale il significato delle relazioni interpersonali, considerate come forza motrice del gruppo e area focale dell’intervento; contrasta i sentimenti di impotenza e inutilità mediante l’aiutarsi a vicenda tra i membri; migliora la capacità di comunicazione ed espressione emozionale sia nel qui e ora del gruppo che nella realtà esterna (Grassi, Biondi, Costantini, 2003) 

Negli ultimi anni sono stati integrati diversi orientamenti di terapie di gruppo e sottolineando gli elementi di base comuni ai diversi modelli si è giunti a spiegare una maggiore quantità di effetto terapeutico a confronto delle singole tecniche. L’efficacia clinica delle terapie di gruppo con pazienti affetti da cancro di diverso tipo è stata indagata relativamente a “qualità di vita, compliance al trattamento medico, capacità di comunicazione e relazione con medici, modalità di affrontare la malattia e convivere con la malattia, ansia, depressione, dolore e relazioni con familiari” (Costantini e Grassi, 2002). 

In letteratura possono essere evidenziati alcuni diversi modelli di intervento, riconducibili a tre categorie di gruppi terapeutici, che permettono di orientarsi tra i vari filoni in cui è andata sviluppandosi la terapia di gruppo in oncologia: gruppi di informazione-educazione, gruppi con focus cognitivo e coping skill training, gruppi interpersonali di “recupero” o di “supporto” ad orientamento esistenziale (Costantini e Grassi, 2002). Nelle prime due tipologie il conduttore utilizza uno stile deduttivo o interattivo: non viene sfruttato a pieno il fattore “interazione di gruppo”, ma sono previste tecniche utilizzate in genere nel setting individuale.

Nei gruppi di educazione, lo scopo diviene di fornire elementi per la prevenzione e di aumentare la conoscenza della malattia e del trattamento. Si arriva così a migliorare il senso di controllo e la percezione di efficacia personale sia nei pazienti che nei loro familiari, riducendo lo stress successivo alla diagnosi. Sottoforma di lezioni o workshop, le informazioni vengono trasmesse da figure professionali coinvolte nel trattamento. I gruppi psicoeducazionali sono piuttosto brevi e condotti con uno stile deduttivo -didatticamente orientati, con interazione limitata a eventuali domande poste dai partecipanti- e migliorano la conoscenza della malattia e del trattamento, aumentando l’aderenza al regime terapeutico e l’adattamento funzionale. Sono particolarmente indicati a pazienti a rischio genetico o che da poco hanno ricevuto una diagnosi di cancro o ai loro familiari. 

La seconda tipologia -gruppi con focus cognitivo- è rivolta a pazienti già in cura. Questi gruppi sono orientati alle modalità individuali di risposta emotiva e comportamentale; generalmente sono alquanto brevi (12-15 sedute) e strutturati. Lo stile di conduzione viene definito in prevalenza interattivo; un approccio cognitivo comportamentale viene integrato solitamente ad alcuni aspetti affettivi ed esistenziali. Viene stimolata un’aperta espressione e consapevolezza delle proprie reazioni emozionali ed una comunicazione autentica all’interno del gruppo, una formazione specifica per migliorare la capacità di far fronte alla malattia promuovendo comportamenti che favoriscono la salute. In genere siamo davanti ad un approccio strutturato in cui sono proposte parti didattiche ed esperenziali di esercizi o discussioni che migliorano la gestione di alcuni sintomi e favoriscono l’abilità di risposta alla malattia. 

La terza categoria si rivolge a pazienti in fase avanzata della malattia, a quelli in cui è progredita nonostante le cure, insomma a chi desidera una revisione più estesa della propria vita dopo il cancro (Costantini e Grassi, 2002). In genere sono gruppi duraturi (oltre sei mesi), che permettono l’espressione autentica dei sentimenti e delle preoccupazioni personali. Condotti con stile induttivo, da conduttori esperti in questioni di gruppo che promuovono la coesione tra i membri attraverso la gestione della discussione, della rete di relazioni e delle dinamiche di gruppo. 
I contenuti sono proposti dai pazienti, non strutturati, centrati sul processo di gruppo e facilitati dal terapeuta. Questa tipologia migliora l’adattamento emozionale, favorendo supporto, revisione delle priorità, recupero della progettualità esistenziale, l’affrontare il significato personale del vivere e del morire. 

Questi gruppi interpersonali di recupero e di supporto a orientamento esistenziale trovano un fondamento sulla constatazione che le difficoltà incontrate dai pazienti neoplastici sono di natura esistenziale (Serblin e al, 2000). La terapia di gruppo supportivo- espressiva è designata infatti per enfatizzare la regolazione e l’espressione delle emozioni: il suo focus esistenziale concerne l’ansia della morte, l’isolamento, le responsabilità. In tale terapia sembrano così emergere alcuni temi fondamentali: costruzione di legami, espressione dei sentimenti, ricostruzione delle priorità nella vita, l’accordarsi con i dottori, placare il dolore (Spiegel e Classen, 2000).

I terapeuti incoraggiano l’espressione delle emozioni personali e un mutuo supporto tra i membri del gruppo: l’espressione delle emozioni primarie (angoscia, paura, tristezza) è uno specifico pilastro della terapia. La psicoterapia riduce così la soppressione delle emozioni sfociando in un livello di stress inferiore, come emerge da una ricerca su pazienti con metastasi al seno (Classen et al. 2001). 
L’espressione delle emozioni più forti in un setting supportivo permette di accrescere il sostegno sociale, costruendo forti legami tra i membri in modo da sconfiggere l’isolamento caratteristico dei pazienti con cancro. 
Il partecipare ad una terapia di gruppo permette confronti con aspetti difficili di una simile esperienza, un confronto capace di dirigere la crescita delle abilità dei pazienti nel far fronte alle proprie paure di morte, una migliore gestione dei sintomi e ricostruzione delle priorità. Spesso si ricorre all’aiuto di persone sopravvissute che avendo appreso come interfacciarsi alla malattia possono aiutare gli altri a farlo. Una simile terapia incoraggia i partecipanti ad assumere un ruolo attivo nel loro trattamento, a sentirsi liberi di fare domande, ad aprirsi agli altri ed a sé stessi, riducendo il senso di isolamento ed incomprensione. Molti partecipanti instaurano legami profondi di amicizia ritrovandosi anche al di fuori dal gruppo. Insieme hanno condiviso, preso parte alla costruzione di un nuovo senso di sé, di nuove priorità e responsabilità, alla ricostruzione di linee di comunicazione con persone importanti (Serblin e al., 2000). All’interno di questi gruppi i soggetti trovano uno spazio in cui possono affrontare delicate tematiche, che probabilmente al di fuori di quel contesto eviterebbero di trattare, come ad esempio il significato della malattia, “perché io”; in un simile luogo le loro paure ed angosce possono essere esplorate e magari gestite. 

In sintesi lo scopo di un simile gruppo è quello di creare un ambiente dove i pazienti ricevono supporto dagli altri ed esprimere a pieno sentimenti ed idee (Serlin, 2000), si scambino informazioni ed esperienze, si trovi supporto ai problemi personali. Il gruppo assolve la funzione di contenitore di tutte queste angosce (Costantini e Grassi, 2004). 
Un intervento strutturato, formato da aspetti di educazione alla salute, formazione/gestione dei comportamenti, coping (incluse tecniche di problem solving) e gruppi di supporto psicosociale, sembra offrire benefici significativi per pazienti con recente diagnosi o ai primi stadi del trattamento in cui il focus diviene apprendere a vivere con il cancro (Fawzy e Fawzy, 1998). Gli interventi di gruppo devono essere usati come una parte integrante dell’assistenza medica e mai come indipendente. 
Compete al terapeuta prendere decisioni circa la composizione, il formato, le dimensioni dei gruppi (Costantini e Grassi, 2002). Nelle terapie di gruppo non sembrano buoni candidati i pazienti affetti da forte deterioramento cognitivo, patologia grave del carattere, con grave depressione o disturbi psicotici, con aspettativa inferiore ai sei mesi o con problematiche pressanti non condivisibili, e chi rifiuta di partecipare. Sembra auspicabile organizzare gruppi omogenei per fase e sede di malattia: in questo modo viene incoraggiata una maggiore coesione e comprensione, dal momento che si presentano le medesime difficoltà da fronteggiare. Di norma si tende a separare i gruppi in fase avanzata della patologia da quelli in stadio iniziale. 
I gruppi inoltre possono essere aperti o chiusi (iniziano e finiscono insieme) e più o meno numerosi a seconda del tipo di intervento. Diversi gruppi possono rivelarsi utili in distinte fasi della malattia; per quanto riguarda l’area della prevenzione primaria l’uso dei gruppi si è rivelato efficace in persone con un maggior rischio di ammalarsi. Alcuni studi sulle terapie di gruppo con pazienti che hanno già manifestato la malattia hanno evidenziato che il gruppo migliora l’adattamento alla malattia. 
Sembra che i gruppi brevi (12-16 sedute) e strutturati di terapia cognitivo comportamentale migliorano l’adattamento nei pazienti in fase iniziale di malattia. Coloro che si trovano già in fase avanzata della malattia beneficiano di trattamenti di gruppo senza un tempo definito a priori, non strutturati e fondati su un’interazione tra i membri. L’utilità dei singoli gruppi sembra sia significativamente correlata all’obiettivo del terapeuta e alla tecnica e stile di conduzione conseguentemente scelti. 

Un altro tema da affrontare in questo ambito riguarda la formazione del terapeuta. Egli dovrebbe possedere una buona esperienza nella terapia di gruppo, così come nel lavorare con pazienti oncologici, essere abile nello stabilire relazioni significative, gestire le forti reazioni che potrebbero scatenarsi in sé, affrontare la sofferenza (Serlin, 2000). Deve essere capace di mantenere il suo ruolo anche se a volte sarebbe utile varcare i confini, essere emozionalmente presente, possedere “una mente capace di commuoversi e di stupirsi” (Neri, 2002), aiutando il gruppo a fare altrettanto.
Il terapeuta dovrebbe favorire la cultura del gruppo, un insieme di norme proprie che rappresentano il set esplicito ed implicito di ruoli e comportamenti attraverso il quale il gruppo conduce se stesso. La cultura di gruppo contribuisce alle condizioni di sicurezza e di accettazione (Serlin, 2000). Alcune di queste norme includono il sentirsi liberi di interagire spontaneamente, onestamente, accettazione e non valutazione degli altri, stabilire il focus sul problema cancro, informazioni sulle assenze. 
Lo scopo di una simile terapia non è diretto al cambiamento della personalità, ma si rivolge al qui ed ora, cercando di promuovere la manifestazione di quelle emozioni descritte precedentemente. 
Il conduttore dovrà essere capace di facilitare interazioni supportive, sviluppare la comunicazione in ogni direzione possibile, incoraggiando l’espressione di sentimenti e pensieri, evitando che i pazienti si esprimano in modo astratto e impersonale. Può risultare utile inoltre spingere a prender parte ai propri trattamenti, monitorando il loro disagio, facendo attenzione ai sintomi, collaborare con i medici. 
Oltre ai cambiamenti psicologici, alcune ricerche hanno considerato alcune modificazioni biologiche come esiti di interventi di gruppo o addirittura ci sono stati studi che hanno cercato di evidenziarne gli effetti sulla sopravvivenza di pazienti con cancro. Sono state valutate le conseguenze di un intervento di gruppo in termini di qualità di vita, sconforto psicologico, abilità di coping, funzioni immunitarie e tempo di sopravvivenza (Hosaka e al., 2001). 

Spiegel e coll. (1989) hanno riportato che le pazienti con cancro al seno, dopo aver ricevuto un intervento di gruppo, hanno mostrato maggior sopravvivenza rispetto al gruppo di controllo. Anche Fawzy e coll. (1993), in seguito ad una terapia simile, hanno evidenziato una riduzione di sconforto emozionale, miglioramento del funzionamento immunitario e una minor percentuale di ricadute o morti. Secondo Goodwin e colleghi (2001) la psicoterapia di gruppo migliora la qualità di vita di pazienti con cancro, ma non la quantità: si riduce il dolore e lo stress, si vive meglio dunque ma non più a lungo. 

Edelman e coll. (2000) in una ricerca hanno compiuto un excursus degli studi che sono riusciti oppure hanno fallito nel trovare conferma alla relazione tra psicoterapia e tempo di sopravvivenza. 
La letteratura appare così divisa sulla questione dei benefici della terapia sulla sopravvivenza, in ogni modo la terapia di gruppo per pazienti oncologici potrebbe ugualmente essere prescritta per i suoi vantaggi psicologici, per l’effetto positivo sulla qualità di vita, se non necessariamente perché prolunga l’esistenza (Spiegel, 2001). 
In Italia qualcosa si sta muovendo in questo senso, ma siamo ancora agli inizi, molta strada è ancora da percorrere, pochi centri hanno sviluppato programmi di psicoterapia di gruppo. Alcune esperienze significative in questo campo sono state compiute da Grassi sulla psicoterapia supportivo- espressiva e da Costantini sulla psicoterapia di gruppo a tempo limitato (Costantini, 2000). È importante così incoraggiare l’importazione attiva delle terapie di gruppo in Italia, adattandole alla realtà, alla cultura italiana poiché, guardando la letteratura in merito, non è possibile negare che i gruppi proteggano i pazienti da uno stress continuo, forniscano l’opportunità di dare e ricevere supporto, di esprimere i loro pensieri e sentimenti inerenti il significato di come sia vivere con una simile malattia. Considerando gli aspetti psicologici della malattia viene tutelata la salute psicofisica del malato che può sentirsi equipaggiato ad affrontare al meglio la propria malattia. 

Di fronte ad un simile scenario non si può far altro che accogliere l’importante contributo dato dalla terapia di gruppo ai pazienti oncologici in un momento critico della loro vita. La psiconcologia dovrà integrare i trattamenti medici, dovrà mettere a disposizione le proprie risorse, promuovendo una visione globale della patologia, in cui domina un’influenza reciproca tra psiche e soma. 

Bibliografia
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·       Costantini, A., Grassi, L.,Biondi, M. (1998). Psicologia e Tumori. Una guida per reagire. Il Pensiero Scientifico Editore. 
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· Grassi L., Biondi M., Costantini A., Manuale pratico di Psiconcologia, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2003.
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·  Spiegel, D., Bloom,J.R, Kraemer, H.C e al.(1989). Effect of psychological treatment on survival of patient with metastatic breast cancer. Lancet, 888-891.
·  Spiegel, D. e Classen, C., (2000). Group therapy for cancer patient: a research-based Handbook of Psychosocial Care, Basic Books, New York. 
·       Spiegel, D., Giese-Davis, J.(2002). Reduced emotional control as a mediator of decresing distress among breast cancer patients in group therapy. International Congress Series. Vol.1241;pp.37-40. 
Sti internet consultati
Ø     www.stpauls.it/fa_oggi/ (Psicoterapia di gruppo in oncologia di Anna Costantini e Luigi Grassi, 2004) 
Ø ww2.unime.it/oncologiamedica/Convegni/Congresso (Terapie psicologiche in oncologia di Lucia Toscano, 2001)