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giovedì 23 giugno 2016

IL MARTEDÌ DELLA MENTE

Dedichiamo spesso molto tempo alla cura del nostro corpo, ma non dobbiamo dimenticarci che anche la mente ha bisogno dei suoi spazi; nasce il giorno dedicato alla cura della tua mente.
Il martedì della mente consiste in laboratori attraverso i quali è possibile apprendere le tecniche di gestioni di sentimenti che spesso influenzano la nostra vita e non ci permettono di condurre una vita serena.
 


 E se non fosse solo rabbia?


Durante la giornata capita di arrabbiarsi.
Spesso si tende ad ignorare questo sentimento apparentemente negativo, facendo sì che questi accadimenti si accumulino fino al punto di esplodere in comportamenti poco funzionali alle relazioni con gli altri.
 
Immaginate, quindi, di poter riconoscere la vostra rabbia prima che questa si accumuli ed esploda.
 
Immaginate di trovare un modo per gestirla senza far del male agli altri, ma soprattutto a voi stessi.

 

Il laboratorio pratico si terrà martedì 5 Luglio dalle ore 19:00 alle ore 20:30 presso il Centro di Psicoterapia Familiare in via Nicola Fabrizi 60.

Il costo del laboratorio è di 10€.


Per info e prenotazioni contattare il numero 3913519017 oppure gruppiapescara@gmail.com

mercoledì 24 febbraio 2016

PIANGERE FA BENE AL CUORE

Il pianto è una manifestazione fisiologica che ci permette di riequilibrare l’umore, è per questo che piangere fa bene al nostro organismo.

Secondo William Shakespeare infatti il nostro corpo è come un giardino e la mente è il suo giardiniere. Siamo fonte e trasmettitori quindi di potenti energie che ci attraversano e ci governano.
Le emozioni sono armi grandiose che ci permettono di scaricare o metabolizzare le tensioni energetiche attivate da stimoli e pulsioni.
Tutti i nostri vissuti sono innanzitutto esperienze della mente, ed è per questo che è così importante attivare il grande potere della mente del quale tutti noi disponiamo.


Ci vuole quindi “un altro sguardo” per poter comprendere le regole psicosomatiche che partecipano a creare il nostro benessere.
Trattenere il pianto o non piangere mai può causare danni al nostro organismo che viene privato della possibilità di gestire in modo più efficace lo stress e le tensioni.

Quante volte infatti abbiamo sentito che piangere ci ha fatto stare meglio? Secondo un recente sondaggio, nove persone su dieci si sentono meglio dopo un bel pianto (circa 88% della popolazione) ed una donna piange in media 47 volte in un anno (fonte accreditata dal Corriere della Sera).

Evitare di piangere quindi aumenta il rischio di infarti e di danni al cervello.
Durante il pianto, soprattutto quello di tipo emotivo, ci liberiamo dalle tossine prodotte dallo stress, in particolare da sostanze come la prolattina e il manganese (presente in modo elevato nel cervello dei depressi).
Sforzarsi di non piangere, blocca le emozioni dentro di noi, favorendo posizioni poco corrette anche per la colonna vertebrale, si pensi ad esempio alle classiche spalle ricurve causate da un irrigidimento della muscolatura.
La tensione quindi viaggia dalla mente direttamente allo stomaco danneggiandolo e provocando in ultimo stadio gastriti e dolori intestinali.
Così facendo poi contribuiamo ad indebolire il nostro sistema immunitario già provato a causa dei forti stimoli negativi al quale è stato sottoposto.
Una recente ricerca di William Frey, biochimico dell’Università del Minnesota (Usa) ha dimostrato in modo scientifico che dal pianto nascono benefici sia fisici che psicologici. Lo studioso ha infatti formulato la “recovery theory” cioè la “teoria della guarigione” secondo la quale le lacrime emozionali, cioè quelle causate da un dolore o dalla commozione, sarebbero un vero toccasana per il nostro benessere.
Esse permetterebbero all’organismo di recuperare l’energia persa a causa di una forte tensione, liberandoci di qualcosa per ristabilire il nostro equilibrio.
Piangere, inoltre, provoca la produzione di enkfalina, un anestetico che rilassa i muscoli facilitando così uno stato distensivo del nostro corpo.
Secondo il professor Frey le lacrime, aiutandoci ad affrontare il nervosismo, ci hanno permesso di sopravvivere alle pressioni della selezione naturale.
È per questo che ogni secrezione che viene dal nostro corpo è preziosa e capace di miracoli.



mercoledì 17 febbraio 2016

La paura e il coraggio di essere felici.




Domanda: “Cosa le manca per essere felice? Cos’ è per lei la felicità?” -
Risposta: “Come può parlarmi di felicità quando tutta la mia vita è uno stress: il lavoro, il traffico quotidiano, i litigi familiari, il tempo e i soldi che non bastano mai, i figli da crescere e da controllare, gli impegni sociali, e poi le tasse, le malattie, il mutuo, il terrorismo, l’inquinamento. E lei parla di felicità? In quale mondo vive? E’ già tanto se raggiungo la serenità”.


Una risposta che ricevo troppo spesso tra un misto di rassegnazione e di rabbia. La felicità: pensarla e desiderarla sembra quasi scandaloso: è il nuovo tabù dei tempi moderni.
Chi ne ha esperienza, in qualche momento della vita, la nasconde con il silenzio, l’imbarazzo, la vergogna, la diffidenza e il timore. Di cosa? Dell’ aggressività, dell’invidia e della frustrazione dei cosiddetti “altri” che spesso si rivelano essere i propri familiari, le persone di cui ci si fida. Quelli che hanno messo a tacere i propri sentimenti e i propri desideri, che hanno perso quel navigatore interno - il personale senso della felicità - e diventano dirottatori sabotatori di quello degli altri. 
Ma cos’è la felicità? Comunemente è considerata un traguardo, uno stato di soddisfazione legato alla soluzione di problemi o al raggiungimento di obiettivi desiderabili, di un benessere economico permanente.


Possiamo pensarla in un altro modo? Un’ ulteriore senso che ci è dato per natura, una modalità percettiva che ci suggerisce, sussurra, spinge, orienta verso il nostro benessere, verso le persone, le situazioni conformi al nostro autentico modo di essere. Un senso che perdiamo durante la crescita; c’è chi lo chiama il “paradiso perduto o la “caduta” da uno stato di grazia. Può accadere così, da bambini. Una volta, abbiamo confessato un segreto desiderio del cuore, o mostrato a qualcuno di essere felici. Con quell’apertura, quello splendore, quel sorriso tipico di chi avverte e si sente pervaso dalla sensazione di un totale appagamento; semplicemente perché si sente connesso con una fonte di felicità invisibile, non definita. O magari, in occasione di semplici avvenimenti. Inaspettatamente, dopo quel sorriso, abbiamo sentito abbassare il livello energetico della felicità, è cambiato l’umore, si è interrotto di colpo qualcosa ed è arrivato un buio, è affiorato un disagio, uno strano senso di colpa, la sensazione di aver commesso qualcosa di sbagliato, di aver tradito qualcuno che non era felice come noi. Perché non poteva più esserlo o forse…non voleva.
E d’improvviso un pericolo, e ci siamo protetti.
Come? Come si fa con un qualsiasi trauma: l’abbiamo rimosso. Abbiamo ricacciato nell’inconscio quel senso di felicità perché si è trasformato in un dolore, in una paura, pericolosa da rivivere e lo reprimiamo ogni volta che riemerge fino a dimenticarlo. Ogni tanto, negli anni riaffiora: “”Mi sento felice, mi sento bella/o, sento che tutto è possibile”. Ma ora sappiamo cosa fare per non soffrire. Ormai, siamo andati a scuola dell’Ego che ci dice: ”Attenta/o! Dove sarà la fregatura? Quanto durerà? Quanto pagherò per questo? Quando arriverà la punizione?” Meglio di no…”. Così ci abituiamo a non stare bene, ad essere diffidenti verso le sensazioni e le emozioni che ci sorprendono, che ci informano che qualcosa di bello sta arrivando. “No! A me? Proprio no!” Si chiama paura e rimozione della felicità. Proprio così. Esiste. 
Uno studio condotto nel 2010 da alcuni ricercatori statunitensi (Olatunji O et.al) lo ha messo in evidenza. Le emozioni ma anche i pensieri, le fantasie, i desideri gratificanti sarebbero vissuti come potenzialmente pericolosi, come una minaccia da cui difendersi perché ci fanno perdere l’autocontrollo e quindi ci renderebbero vulnerabili. Vengono chiamati disturbi nella sfera dell’umore o disregolazione, cioè incapacità di gestire le emozioni positive che sarebbero invece subìte come tempeste da cui proteggersi. E’ questa la nevrosi moderna: quella ontologica, cioè l’incapacità non solo di trovare il senso e il significato della propria vita, ma di riconoscere e vivere il senso della felicità. Anche l’attacco di panico a volte è la reazione errata ad un suo avvicinarsi, una “fuga dalla felicità”. L’ho verificato molte volte con persone molto educate, rispettose delle regole che fin da piccole si sono abituate a controllare le emozioni, quelle belle, spumeggianti perché non conformi ad un certo modello educativo. E quando c’è la possibilità di più gioia, scappano. E cosa serve per sconfiggere la paura? Il coraggio. Parola che ha la stessa radice etimologica di cuore: un’esigenza, un’azione che parte dal cuore, come i desideri, anch’essi repressi. Sembra assurdo ma ci vuole il coraggio per essere felici. Il coraggio di riscoprire questo senso che ci fa sentire più vivi, che cerchiamo in molti modi anche sul lettino dello psicanalista. Ma anche la Psicologia tradizionale è troppo concentrata a risolvere problemi, a parlare di malattie, di conflitti e dolore, a riportare alla normalità. E invece, dovrebbe avere come punto di partenza la ricerca della felicità. La Psicologia della felicità (da non confondere con il Pensiero positivo), intesa come un modo di pensare e agire basato su nuovi significati, nuove interpretazioni delle esperienze e delle emozioni non date dall’esterno, ma vissute e sperimentate in prima persona attraverso il recupero del personale senso di conoscenza che è la felicità. E poi, sostenere la pratica della virtù per seguirla, mantenerla e proteggerla. E’ una ricerca coraggiosa che implica il riconoscimento delle responsabilità nelle scelte fatte e in quelle da fare, l’attraversamento dei momenti di crisi guardandoli come opportunità, il rivolgersi domande scomode, il crollo delle false illusioni e lo smascheramento dei piccoli e grandi tradimenti commessi contro se stessi. Ci vuole coraggio, si. Per disseppellire i dolori e trasformarli in amore e consapevolezza, per dissociarsi dal comune pensare, dalla rassicurante normalità che imprime una sola direzione verso la sfiducia, lo scetticismo, l’impossibilità del cambiamento. Il coraggio di cambiare gli amori, le amicizie, le abitudini, il coraggio di cambiare strada. Allora, onestamente rispondiamo: “Ce l’abbiamo il coraggio di essere felici? “


giovedì 11 febbraio 2016

Conosciamo la rabbia

Per crescere, i bambini hanno bisogno di sperimentare continuamente quello che possono e non possono fare, limiti e possibilità: l’aggressività è una naturale e sana espressione di questo processo di sviluppo. Una reazione arrabbiata e collerica è prima di tutto la manifestazione di un’emozione di questo normale processo e il bambino deve essere libero di esprimerla per poter imparare a controllarla. Quando si impara qualcosa di nuovo, la si fa inevitabilmente male e la rabbia non fa eccezione: i bambini si arrabbieranno “male” per un bel po’, prima di imparare a farlo “bene”! Perché è necessario insegnare ai bambini come manifestare la rabbia, non insegnare loro a non arrabbiarsi.



L’espressione della rabbia, inoltre, è il primo passo verso l’accettazione della frustrazione. I bambini non accettano volentieri un NO e, per farlo, devono necessariamente attraversare la collera. Difatti, non poter ottenere ciò che si desidera provoca un naturale sentimento d’ira causato dal non poter soddisfare ciò che si desidera – e questo non vale solo per i bambini!
Un bambino arrabbiato, quindi, non è cattivo: è un bambino che sta crescendo, che sta sperimentando se stesso e quello che sente dentro di sé e che sta imparando a conoscere il mondo che lo circonda.
Vediamo insieme come si manifesta l’aggressività nei bambini e come cambia nei primi anni di vita:
- fino ai 18 mesi circa il bambino non sa ancora esprimersi bene attraverso il linguaggio e, anche per questo, le sue reazioni sono molto fisiche: spesso a quest’età i bambini mordono, spingono o strattonano per manifestare la loro frustrazione. Anche se non si devono assecondare questi comportamenti, dobbiamo sempre tenere presente che non c’è l’intenzionalità di fare male. Il morso, ad esempio, rappresenta la modalità più adatta per manifestare diverse emozioni e per “provare” l’altro;
- intorno ai 2 anni l’aggressività comincia a essere intenzionale, è ancora molto fisica ed è rivolta soprattutto verso mamma e papà, da cui i bambini hanno bisogno di separarsi per affermare la propria individualità e conquistare il loro posto nel mondo;
- a 3 anni la rabbia inizia ad essere rivolta anche verso i coetanei e diviene uno strumento – quasi l’unico a loro immediata disposizione! – per trovare uno spazio all’interno di un gruppo di pari.
Vediamo insieme quali comportamenti adottare davanti alla rabbia e all’aggressività dei bambini per non esserne sopraffatti noi e perché i piccoli non crescano con l’idea che arrabbiarsi sia sbagliato.
- Diamo poche spiegazioni.
Più il bambino è piccolo, meno dobbiamo dilungarci in spiegazioni articolate; diciamogli chiaramente che quella determinata cosa non si fa, allontaniamolo e diamogli il tempo di calmarsi. Dobbiamo sempre ricordarci che il nostro bimbo imparerà a non essere aggressivo, ma per capirlo dovrà arrabbiarsi molte volte!
Le spiegazioni devono essere sempre brevi e chiare: un bambino arrabbiato fatica a concentrarsi su quello che gli diciamo. Ecco perché è opportuno usare poche parole molto precise. Una volta che si sarà calmato, possiamo chiedergli “Hai capito perché mi sono arrabbiato?”. Le risposte a questa domanda ci sorprenderanno, perché spesso i bambini non lo sanno davvero o hanno idee molto lontane dalla realtà. E noi avremo l’occasione di spiegare il perché in un clima più disteso e favorevole alla comprensione.
1. Disapproviamo il comportamento, non il bambino. Ricordiamoci di dire al bambino: “Hai fatto una cosa antipatica, brutta…”. E mai: “Sei un bambino cattivo”. E’ fondamentale evitare di dare giudizi assolutizzanti che imprigionano i bambini in etichette impossibili da modificare. E’ molto più facile pensare di cambiare un singolo comportamento che una persona nella sua interezza. Inoltre per i bambini è vitale sapere che i sentimenti che provano sono sempre accettati, indipendentemente dalla loro manifestazione. Anche in questa occasione teniamo presente che è più facile controllare l’esternazione di un sentimento che il sentimento stesso. Un’emozione si prova anche contro la propria volontà. Viceversa la sua espressione esterna può avere diverse modulazioni molto più gestibili.
2. Conteniamo il bambino. Quando i bambini sono piccoli, spesso esprimono la rabbia in modo fisico, anche con accessi di aggressività. In questi casi soprattutto, i piccoli non sanno ritrovare la calma in maniera autonoma; è necessario allora dare loro un abbraccio contenitivo. E’ un modo fisico, non verbale, molto efficace di dire loro: “Eccomi, sono qui. Ti calmo io, perché io ho la forza per farlo”.
3. Proponiamo alternative per sfogare la rabbia. Se, come abbiamo visto, la rabbia è normale, non dobbiamo chiedere a un bambino di non arrabbiarsi. Il nostro compito è di insegnargli un modo alternativo per sfogarsi, permettendogli così di conoscere e controllare questa emozione e, prima di tutto, dobbiamo permettergli di tirare letteralmente fuori quello che sente dentro di sé. Possiamo scegliere un cuscino, uno solo, che può diventare il cuscino della rabbia da bistrattare quando si è arrabbiatissimi; possiamo tenere un quaderno della rabbia in cui disegnare ogni volta tutta la rabbia che sentiamo, strappare il foglio e fare in mille pezzettini il furioso disegno; oppure possiamo prendere dei vasetti con etichette colorate, uno per ogni emozione, e prendere quello della rabbia per urlarla al suo interno e richiudere il coperchio per non farla uscire. In questo modo aiutiamo il bambino a riconoscere le emozioni: un vasetto per la felicità, uno per la tristezza è un buon modo per rendere concreto qualcosa che non si può vedere e per iniziare a nominarle e a riconoscerle.
4. Diamo noi voce alla sua rabbia. Diciamogli che capiamo che è infastidito, arrabbiato o furioso – cerchiamo di essere precisi, la rabbia non è sempre uguale! -, ma che questa cosa non si può comunque fare. Lo abitueremo così a verbalizzare le emozioni e a conoscerle e lo accompagneremo verso l’accettazione della frustrazione.
5. Manteniamo la nostra posizione. Di fronte al grido “E’ un’ingiustizia!!!!”, rispondiamo con più tranquillità possibile che è vero, questa cosa forse è ingiusta per lui, ma resta così. I bambini hanno un forte senso della giustizia, ma nei primi anni di vita è giusto ciò che vogliono loro e ingiusto ciò che impongono gli altri. E ci vuole un bel po’ di tempo perché questa concezione di giustizia si modifichi.
6.  Non sommiamo la nostra rabbia  a quella del nostro bambino. Proviamo a sedare la rabbia senza ricorrere anche noi ad essa! Preferiamo la calma: questa è forse la parte più difficile, ma è il modo migliore per offrire un modello di comportamento alternativo. E i bambini, si sa, imparano da quello che vedono prima ancora che da quello che diciamo loro.

Lasciamo, quindi, che i bambini si arrabbino: insegneremo loro ad accettare i limiti, a conoscere il mondo e a sviluppare la loro identità. Il compito difficile è, ancora una volta, dei genitori: riuscire a sopportare urla e pianti e resistere a occhioni tristi che guardano imploranti è difficile. Ma è per il loro bene e non possiamo tirarci indietro!

http://www.consulenzafamiliare.com/conosciamo-la-rabbia/