lunedì 7 settembre 2015

INIZIATIVE CHE FANNO CRESCERE


LABORATORIO ESPERENZIALE SUL GENOGRAMMA
 


SU COSA SI BASA IL LABORATORIO?

Il GENOGRAMMA è uno strumento grafico di rappresentazione della struttura (almeno)

tri-generazionale della famiglia, che ha lo scopo di mantenere traccia delle risultanze dell'indagine

psicodiagnostica relazionale e guidarla rispetto alle dinamiche emotive, di funzione e di relazione

che caratterizzano la specifica famiglia che si sta trattando in terapia.

Attraverso il Genogramma si scoprono i punti di forza e di debolezza dei membri della famiglia e

     dell'intero gruppo, conoscendone le ragioni evolutive di questi, conquistando così una buona base

     condivisa di conoscenza della propria storia per affrontare proficuamente le trasformazioni insite in      

     un buon percorso psicoterapeutico.

Questo strumento viene usato proficuamente anche da didatti esperti in sessioni formative, dove si utilizza con gli/le allievi/e allo scopo di:

consentire ad ognuno di essi una profonda conoscenza della propria storia evolutivo-relazionale, di

      individuare gli schemi inconsci ed automatici di relazione da cui si viene dominati, apprendere

      esperienzialmente l'uso dello strumento.


SCOPO DEL LABORATORIO

 Lo scopo di questo evento è creare un gruppo di lavoro attraverso il quale condividere un pezzo di sé attraverso l’impegno di tutti nel gruppo.

È un gruppo terapeutico che permette di raccogliere più informazioni sulla propria storia familiare e di ricostruire così il proprio copione di vita, segnalando quali modelli di funzionamento andrebbero eventualmente modificati perché non più idonei ai cambiamenti evolutivi che tutte le persone affrontano nell’arco della loro vita.

Entrare in contatto con questo strumento in prima persona permette di sperimentarne l’efficacia in un processo di crescita personale e/o professionale, il quale prende spunto dal passato per ricondurre la persona all’OGGI.

Che sia per fini di crescita personale o per scopi formativi, il Genogramma permette di fare collegamenti, porsi nuove domande e, eventualmente, dare delle risposte.

DESTINATARI


Il Laboratorio è rivolto a tutti coloro (di maggiore età) che desiderano porsi domande più rilevanti sul proprio passato, per capire meglio il presente.

È inoltre rivolto a chi vive un disagio relazionale, che sia di coppia o familiare, o anche nelle relazioni degli altri contesti della propria vita (lavorativo, amicale).

È rivolto anche agli operatori della salute psico-fisica che vogliano apprendere un nuovo strumento per completare il loro intervento professionale (assistenti sociali, infermieri, psicologi, medici, educatori).
 
 

MODALITA’

 Il laboratorio prevede un massimo di sette partecipanti, i quali avranno a disposizione un’ora ciascuno per lavorare graficamente ed emotivamente sui propri legami familiari.
Il gruppo dei partecipanti ed il conduttore daranno poi ad ognuno una restituzione verbale e simbolica del lavoro svolto.

 TEMPI E COSTI

 La giornata di laboratorio si svolgerà nella data del 03 Ottobre 2015, a partire dalle ore 10.00 fino alle ore 18.30, con una pausa pranzo di un’ora, qualora si raggiunga il numero massimo di iscritti.
 
La sede del laboratorio è a Pescara, via N. Fabrizi, 60

Il costo per ogni partecipante è di € 70,00.

 

 

 

 

Per maggiori info:
dott.ssa Ivana Siena
391.35.19.017 – sienaivana@gmail.com

 

giovedì 3 settembre 2015

GRUPPO DI LAVORO E LAVORO DI GRUPPO: L'UNIONE CHE FA' LA FORZA!




Sempre più spesso si lavora in contesti in cui vengono costituiti dei veri e propri gruppi di lavoro (o team) per portare a termine specifici progetti o attività. La capacità di lavorare in gruppo diventa pertanto un requisito indispensabile per tutti coloro i quali si muovono nell’attuale mercato del lavoro.
Le moderne organizzazioni, infatti, puntano molto sul lavoro di gruppo come strategia per ottenere migliori risultati derivanti dai talenti collettivi del team, dalla capacità dei membri di sostenersi l’un l’altro per superare i momenti difficili, dalla possibilità di moltiplicare le opzioni grazie alla creatività che deriva dal confronto di idee.
L’abilità di team-working diventa quindi un requisito richiesto dalle aziende che selezionano personale, ma non solo. Partendo dal presupposto che in tutti i luoghi di lavoro, o quasi, è necessario interfacciarsi con altre persone per portare avanti la propria attività, appare chiaro come dotarsi di tale capacità possa portare a vivere meglio l’ambiente lavorativo e a migliorare il proprio livello di performance.

Le caratteristiche che definiscono un team rispetto ad altri tipi di gruppo sono sostanzialmente:

v la condivisione degli obiettivi
v l’interdipendenza e la collaborazione fra i membri
v il senso di appartenenza al gruppo
v la presenza di ruoli definiti
Per potersi considerare membri efficaci di un gruppo di lavoro è necessario, quindi, non solo possedere le conoscenze e capacità richieste dall’attività specifica del gruppo, ma anche tutta una serie di competenze più specificatamente comunicativo-relazionali che rendano possibile un’interazione proficua e costruttiva con gli altri membri.
In tale ottica diventa fondamentale il concetto di team-building, cioè quell’insieme di attività volte a trasformare un gruppo di persone in un team di lavoro vincente.
A fare le cose non sono le procedure ma chi le esegue.
Le politiche sul personale sono pertanto il fattore strategico principale da tenere in considerazione per assicurare il successo delle attività.
Oggi sempre più spesso ai lavoratori è richiesto di saper lavorare in gruppo, la cosiddetta abilità di team-working. Una competenza trasversale che, essendo di grande importanza nei contesti organizzativi modernamente strutturati, viene valutata anche in fase di selezione delle risorse umane.
Ma cosa vuol dire esattamente lavorare in gruppo?
Innanzitutto cerchiamo di capire cosa si deve intendere per gruppo. Kurt Lewin (1948) definiva il gruppo “un insieme dinamico, costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto”.
Partendo dai concetti della teoria della Gestalt e dall’osservazione che le persone nei gruppi si comportano in maniera diversa da come si comportano individualmente, Lewin ha coniato il termine dinamica di gruppo. La dinamica di gruppo viene definita come un processo che genera forze psicologiche e che ha una forte influenza sul comportamento.

Lo spazio vitale comprende persone e ambiente come un unico campo dinamico, in cui ogni individuo viene modificato dall’ambiente e lo modifica a sua volta. Il concetto di campo si riferisce a un sistema globale di forze in movimento, le cui leggi non dipendono tanto dagli elementi presenti nel campo stesso, quanto piuttosto dalle loro relazioni.
In base ai fattori chiave che vengono maggiormente posti in luce e al livello di coesione presente, possiamo distinguere diversi tipi di gruppi: sono un gruppo le persone che stanno aspettando l’autobus o dei ragazzini che giocano, la famiglia, la squadra di calcio, gli abitanti di un quartiere, gli esercenti una certa professione, gli appartenenti a una nazione o a una etnia.
Il gruppo esiste quando gli individui divengono consapevoli che in qualche modo il loro destino è collegato a quello del gruppo stesso (“interdipendenza del destino”, Lewin) e non è riducibile alla somma degli individui che lo compongono.
Nel gruppo di lavoro oltre alla interdipendenza del destino emerge un altro aspetto caratterizzante che si può definire “interdipendenza del compito”. I gruppi di lavoro, infatti, nascono perché c’è un obiettivo da raggiungere, un compito da assolvere, tale che i risultati di ciascun membro hanno implicazioni per i risultati degli altri. Questa interdipendenza sarà tanto più positiva quanto più sarà in grado di far emergere sentimenti di cooperazione e coesione tra i membri, favorendo una migliore prestazione del gruppo. Assumerà invece una connotazione negativa quando prevarrà la competizione.
Cooperando infatti i membri del gruppo coordinano i loro sforzi, si suddividono i compiti, si attivano per raggiungere l’obiettivo comune prestando attenzione ai colleghi e comprendendo le reciproche necessità e i reciproci punti di vista, lavorano in un clima amichevole e tutto questo genera un livello superiore di performance.


Ma vediamo quali caratteristiche occorrono per essere dei buoni membri per un team di lavoro. Oltre alle conoscenze e alle abilità che garantiscono l’apporto in termini di contenuti e che sono comunque fondamentali, per lavorare bene in team servono quelle competenze sociali e personali (soft skills) che consentono di interagire proficuamente con gli altri membri del gruppo al fine di raggiungere l’obiettivo comune, come ad esempio:
v Capacità di ascolto attivo
v Comprensione ed empatia
v Capacità di dimostrare sincero interesse
v Attenzione ai particolari
v Capacità di riconoscere i propri errori
v Capacità di negoziazione e mediazione nei conflitti
v Capacità di comunicare attraverso un linguaggio comune (specie nei team multidisciplinari)
v Disponibilità a porre l’obiettivo del gruppo al di sopra dei propri obiettivi personali.
Anche se non ci è mai capitato di cimentarci con un lavoro di gruppo a livello professionale, per comprendere quali di queste competenze possediamo o quali potremmo migliorare ci basterà analizzare situazioni che facilmente fanno parte del bagaglio di esperienza di ognuno di noi come ad esempio praticare uno sport di squadra o lavorare a un progetto universitario. Persino organizzare una vacanza o una festa con i nostri amici. Insomma, tutte quelle situazioni che sono caratterizzate da un obiettivo comune che dev’essere raggiunto in un tempo stabilito e dove sia necessario assegnare dei ruoli o degli incarichi a tutti i membri del gruppo.
Potremo focalizzare l’attenzione sugli aspetti di quest’esperienza che hanno condotto a un buon risultato e su quelli che invece avrebbero potuto essere gestiti meglio, sul nostro ruolo all’interno del gruppo e su come abbiamo agito o ci siamo sentiti nel ricoprirlo, su come sono state superate situazioni problematiche o di conflitto.


Questo esercizio di riflessione ci può portare a scoprire quali doti possediamo e potremmo mettere in campo per creare valore aggiunto in un team di lavoro e quali invece dovremmo curare maggiormente perché allo stato attuale potrebbero esserci da ostacolo o comunque non consentirci di dare il nostro meglio in questo tipo di attività.
Da qualche anno stanno prendendo sempre più piede in Italia metodologie di formazione non convenzionale che mettono l’esperienza al centro del processo di apprendimento con lo scopo di facilitare la trasferibilità nella propria realtà lavorativa dei comportamenti appresi nelle situazioni proposte dai trainer.
Si tratta della formazione esperienziale e outdoor che vuole approfondire il modo di essere e di relazionarsi delle persone nei contesti organizzativi. Lo specifico campo d’azione di questo tipo di formazione comprende l’analisi delle dimensioni socioaffettive legate ai rapporti interpersonali sul lavoro, la gestione dei conflitti, il senso e i significati che ogni persona attribuisce al contesto di appartenenza. Da qualche tempo, comprende anche l’opportunità di lavorare sullo sviluppo di qualità personali e sulla creazione di stati di benessere individuale e organizzativo.
Attraverso role play, business game, simulazioni e, nel caso della formazione outdoor, anche attraverso lo svolgimento di prove pratiche e attività fuori dall’aula, in contesti naturali, i partecipanti vengono coinvolti in attività dal taglio estremamente concreto, divertenti, creative e coinvolgenti in cui il gruppo di formazione diventa una sorta di laboratorio per la ricerca, l’osservazione, l’approfondimento e la condivisione di relazioni, comunicazioni, emozioni e vissuti tra le persone.
Il principio guida è l’apprendimento in azione e attraverso l’azione e l’analisi dell’attività svolta (debriefing) consentirà poi di uscire dalla metafora e focalizzarsi su come ciò che è emerso in questo contesto esperienziale possa trovare applicazione nella vita lavorativa di ogni giorno.
Possiamo quindi ben comprendere come questo possa rivelarsi utile in particolare per le attività di team working e di team building che si basano proprio sulla promozione della coesione e dell’affiatamento tra i membri di un gruppo di lavoro.
di DOTT.SSA LAURA CAMINITI

http://www.psicologiaok.com/517/lavorare-in-gruppo-lunione-che-fa-la-forza

APPROCCIO DINAMICO AL TEMA DELLA ANORESSIA-BULIMIA : SINTOMO, DIFESA, RICERCA DELL' IDENTITA' E LORO TRATTAMENTO NEL GRUPPO TERAPEUTICO


Lo studio dell'anoressia ha da sempre avuto una dimensione, oltre a quella strettamente medica, psichiatrica: nel senso delle fenomenologie riportate, delle cure indicate e dell'interpretazione adottata. Lo studio dinamico è recentissimo; una modellizzazione specifica da parte della psicoanalisi non è stata evidentemente proposta, ma sono state svolte numerose ricerche, tendenti nel loro insieme più a disaggregare i dati che ad organizzarli, più a disarticolare l'idea di una patologia preordinata che a configurarla.
Perché?!. La diagnosi differenziale sembrerebbe infatti nel campo di questa particolare sintomatologia più importante che mai, per almeno tre motivi.
- Il primo riguarda semplicemente la possibilità di distinguere i diversi piani causali, e quindi la loro natura.
- Il secondo la necessità, da parte del curante, di non corrispondere con un pieno - la diagnosi, o meglio la collusione con la diagnosi già stabilita dal sintomo - ad un vuoto - il vuoto di identità che potrebbe celarsi dietro il disordine alimentare.
- Il terzo riguarda propriamente la risposta da approntare per e dopo una corretta diagnosi: intendo la necessità di stabilire se il disturbo anoressico di un paziente sia stato prodotto durante la crisi adolescenziale, cioè nel periodo di ricerca e costruzione dell'identità, o piuttosto in una crisi di regresso, in mancanza della possibilità di integrare parti di personalità in sviluppo e in difficoltà, ma in un periodo successivo.

Insomma l'apparenza del sintomo corrisponde ad una configurazione soggiacente della personalità, oppure la nasconde? In questi diversi casi si tratta evidentemente di porre in campo risposte diverse. Una studiosa di anoressia, H.Bruch, critica nei suoi validi studi fenomenologici e terapeutici, la condotta psicoanalitica, perché troppo "attendista"(Bruch 1978): cito questo aspetto, perché lo considero un tramite di idee relativamente al nostro ambito, molto aderente e qualificante, che porta la nostra attenzione direttamente nel merito del nostro interesse.

Infatti, anche se conviene stabilire che non esista una psicopatologia anoressico-bulimica altro che come stile o addirittura moda prescelta, per esprimere un disturbo non propriamente alimentare, ma soprattutto relativo all'identità, o meglio ancora ad un nucleo fragile del sé, in molti casi risulta appropriato discernere alcune componenti che si ripresentano sempre, associate con questo tipo di disordine della personalità, oltreché del comportamento alimentare. Questo sintomo infatti - e tale lo dobbiamo considerare appunto - può esprimere diverse condizioni (Jeammet P. 1982-'92); ne indicherò alcune.
- La più cospicua riguarda, come si è accennato sopra, il segnale di fallimento dei processi di integrazione delle parti della personalità in sviluppo, nel processo di costruzione e individuazione dell'identità; quindi, è relativa al periodo di definizione dell'identità sessuale e di acquisizione del corpo sessuato: dunque al momento dell'adolescenza (Ferrari A.B. 1994).
- La seconda condizione invece, vorrei prospettarla come inerente alla qualità del sintomo stesso: l'aspetto alimentare è da ritenere espressivo di paure che contengono qualità alimentari: l'essere smembrati, divorati (Anzieu D.1976) e evacuati, sembra un modello che la mente infantile non è stata in grado di evolvere, di trasformare, di sublimare; ad esso sono rimaste legate fantasie, pensieri primitivi, terrori impensabili, che hanno preferito la via corporea e sintomatica all'espressione verbale e alla comunicazione.

Sia il pensiero che la comunicazione e il legame sono rimasti inibiti, o inaccessibili. In una famiglia in cui si ritrova un caso o più casi di anoressia-bulimia, si ritrova anche un serio difetto di comunicazione umana e intersoggettiva. Il sintomo viene scambiato per un problema dietologico e gastro-enterologico, non gli viene assegnato alcun valore espressivo, e viene confinato in uno spazio isolato, privato delle emozioni e dei sentimenti, da dove è difficile, per il curante, disincastrarlo.
Un altro aspetto che si può indicare come generale, anche se diversificato fortemente dalla varianza soggettiva, è relativo alla delusione: la rinuncia anoressica al cibo, o anche l'ingordigia irrefrenabile di cibo, sembrano equivalere alla rinuncia per delusione (di sé, della famiglia, del reale intero). Sembra che la delusione sia quella di accorgersi di aver lottato strenuamente per un falso ideale: spesso quello di difendere il vero sé dalla plasmazione familiare, sentita piuttosto come colonizzazione nociva, eppoi sentire che durante la lotta il vero sé si è svuotato o atrofizzato per mancanza di alimenti; e del falso sé, paradossalmente compiacente, non si può fare un uso creativo. Allora inizia un dramma: la rinuncia al corpo e alla sessualità ne rappresenta la sede.
Si può dire che in questo senso abbiamo toccato un altro aspetto che è molto caratterizzante della condizione di anoressia-bulimia: quello della scissione (vuoi nel senso mente-corpo; vuoi nel senso dell'ambivalenza e la duplicità interne). Sembra che quando le condizioni di precarietà e fragilità siano troppo inoltrate, si renda impossibile contenerle senza fare ricorso alla divisione, o alla duplicazione, e che tale processo di divisione di sé e di duplicazione verso l'altro da sé, possa essere utilizzata allo scopo di sopportare il vuoto; di immaginarlo come pieno; di confondere il mondo interno con quello esterno per essere aiutati a negare la delusione (dalla madre) e la persecuzione del terzo, dell'estraneo (del padre), quando non si siano ancora prodotte le condizioni di sicurezza e stabilità idonee ad elaborarne la presenza all'interno del mondo e dello spazio mentali dell'individuo - o anche, spesso, della famiglia cui egli appartiene.
Purtroppo, frequentemente, un figlio che il medico definisce anoressico o bulimico, viene difficilmente aiutato dalla famiglia, perché ne esprime un difetto, o quella porzione di difetto, che riguarda un'area non elaborata o impossibile da elaborare, della sua vita psichica, e soprattutto della sua capacità simbolica (Castellana F.1995). Ma questo tema ci porterebbe altrove, ad un piano che inerisce alla pensabilità dei contenuti caotici e disarticolati della persona e in particolare della sua parte infantile; alla trasmissione trans-generazionale; al tema della nascita e dello sviluppo del pensiero verbale e della capacità simbolica: e cioè alla capacità del bambino di distaccarsi dall'esperienza sensoriale e figurale della presenza dell'altro (della madre), trasformandola in possibilità di presenza simbolica autoriproducentesi, o comunque rifornibile di apporti affettivi di qualità anche non fisica e non continuativa.
Sembra che questa serie di fallimenti dell'esperienza infantile, ricorrendo al momento cruciale del massimo impegno nella costruzione di sé, nell'adolescenza, possa produrre tutta una serie di comportamenti regressivi, difensivi, sintomatici, che servono a schermare l'esperienza di insicurezza profonda; l'idea di aver fallito; la cognizione di affetti familiari o vuoti o troppo appassionati, in ogni caso inibiti o conflittuali; la fantasia di essere non amati o rifiutati, portatori di contenuti addirittura mostruosi; l'illusione di nascondere, svuotando il corpo o riempiendolo troppo, il sentimento di indigenza e di umiliazione. Diete, rituali ripetuti (Rothenberg A.1993), chiusure e ritiri, raptus di voracità, tutto è utilizzato per sfuggire al timore di frequentare se stessi, il proprio interno (negato), e l'altro, il mondo sociale da cui si è stati emarginati.
In questi pazienti ritroviamo spesso, oltreché una vita intellettiva spesso sviluppata e raffinata, anche un mondo di produzioni fantastiche molto attivo e ricco, connotato frequentemente da passioni sociali, mistiche, estetiche, filosofiche (Vandereycken W. 1994): ma questi contenuti, che hanno a che fare con tentativi mal riusciti di sublimare (cfr. cap. 4) un mondo pulsionale in crisi, raramente contengono qualità simboliche agli occhi stessi della persona che ne è portatrice, né flessibilità e indipendenza. Più spesso si tratta di quelle che potremmo chiamare ideologie rigide, che non arricchiscono la vita e la creatività personale, ma servono a schermirsene. Per guarire ci vuole un aiuto, quello che può essere dato solo dal nutrimento, qualora sia accettato, di relazioni buone, calde, accoglienti.
Forse, per rendere il discorso meno astratto e anche meno pessimistico, converrà accennare alla pratica terapeutica dell'Associazione di cui faccio parte e all'interno della quale è specialmente maturata la mia esperienza con questo tipo particolare di pazienti, di cui siamo venuti parlando. L'ABA infatti è nata come un'Associazione insolita: non come Società di medici e psichiatri e psicologi, ma come gruppi che si sono radunati attorno ad una persona straordinaria, che era stata malata di anoressia ed era guarita tramite l'analisi personale, e aveva semplicemente raccontato, in un libro, la sua storia.
All'origine dei gruppi terapeutici dell'ABA dunque, c'è un fatto non deciso nella mente di uno o più operatori come strategia terapeutica ottimale; bensì questa scelta (quella dell'uso del piccolo gruppo terapeutico, nel quale, se è possibile, vengono preferenzialmente immessi i pazienti), è scaturita, se così si può dire, da un'appartenenza sociale spontanea, nata come riconoscimento di sé attraverso il richiamo di qualcuno o qualcosa (Fabiola Declercq e il suo libro) che ne rappresentava la storia, l'identità, le speranze.
Sembra che i pazienti, quando arrivano alla terapia, all'Associazione, abbiano già sentito di appartenere ad un popolo specializzato, vi si sentano riconosciuti e finalmente percepiti, visti e accolti. Il seguito, sarà di competenza dell'operatore: prima quello del Consultorio, nel quale i pazienti vengono visti preliminarmente e, se reputato utile, inviati a far parte di un gruppo di terapia, o, in seconda istanza, a richiedere un trattamento privato. Poi sarà competenza del conduttore di gruppo e del gruppo, creare lo spazio per il nuovo arrivo; oppure crearlo, nella sua mente, come insieme ancora da comporre, se il gruppo non sia già attivo da tempo.

La valutazione di ognuno di questi aspetti richiederebbe una trattazione particolare, e comunque rinvia a questioni di scelte tecniche e quindi di modelli teorici, oltreché operativi. Ciò che qui possiamo accennare, è relativo alla motivazione sulla scelta, da parte dell'Associazione, dell'uso del gruppo, quale strumento di lavoro psicoterapico privilegiato. Infatti non siamo né di fronte ad un sapere costituito che ne indichi la validità; né a esperienze strutturate che ne rivelino l'utilità, in campo nazionale o internazionale: abbiamo invece il riscontro decennale della esperienza nazionale dell'Associazione e di altre con cui essa ha scambi di informazioni e ricerche; una storia della pratica e della teoria dei gruppi in ambito psicosomatico e in ambito psichiatrico e psicoanalitico; una modellizzazione che negli ultimi decenni ha preso sostanza e ordine, particolarmente nel campo che utilizza le esperienze e gli studi dello psicoanalista inglese W.R.Bion sui fenomeni di gruppo.


La riflessione conduce a considerare alcune utilità nell'uso del gruppo:
- la prima riguarda sicuramente il suo ambito certo e, diremo così, fisiologico, quello dell'adolescenza
- la seconda invece riguarda il gruppo visto come luogo dove l'affrontamento del rapporto identità-alterità diventa urgente e indispensabile, più di quello della relazione duale (mi riferisco al rapporto di psicoterapia individuale), all'interno della quale le quote di indistinzione possono restare più a lungo non sollecitate o meglio non sollecitate a prendere una posizione.
Al contrario, all'interno di un gruppo, le quote più collettive e indistinte della personalità dei suoi membri, vengono rapidamente spinte a creare un insieme, per esempio un'esigenza comune (nel caso di cui parliamo, quella di mantenere una condizione di indistinzione fra sé e l'altro da sé, protetta dall'illusione collettiva), o comunque un prodotto comune, che non sarà sentito come la somma degli apporti personali (di desiderio, bisogno, illusione), ma che potrà essere riconoscibile come sovradeterminazione collettiva: ciò che può recare il conforto di un aiuto impersonale - cioè meno legato alla dipendenza e quindi sentito in modo meno persecutorio - e che può consentire l'esperienza di non essere premuti a fondare precocemente un'identità personale, che, come abbiamo visto, è stata così difficile da costruire.
Un altro elemento utile del gruppo, qualora riesca a formare quell'ambiente affettivo e di pensiero capace di produrre accoglimento, legittimazione, e di compiere esperienze maturative e di restituzione trasformativa, è quello di offrirsi come luogo di appartenenza collettiva di natura esclusiva e di costituire un patrimonio di affetti, idee, memoria, che può proteggere anche l'esperienza esterna del mondo reale dei suoi partecipanti, essendo sentita come tesoro internalizzato che accompagna la persona dal suo interno, e che nel tempo potrà restituire, attraverso le identificazioni multiple del gruppo e il lavoro analitico che esso avrà svolto, capacità di individuazione di sé e di amore.
Ma forse converrà valorizzare il fatto che anche con i lettori stiamo formando appunto un gruppo, e potremo utilmente contribuire insieme a chiarire le nostre domande, o a cercare insieme le nostre risposte.

di Stefania Marinelli

http://www.psychomedia.it/pm/answer/eatdis/marine11.htm

BIBLIOGRAFIA

Agostini S.(1995), Il tempo in/fame:per una lettura del disturbo anoressico, in:" Il corpo e i suoi fantasmi", Rivista di Psicologia Analitica, I5
Anzieu D. (1976), Il gruppo e l'inconscio, Borla, Roma 1979
Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971
Bruch H.(1978), La gabbia d'oro, Feltrinelli, Milano 1983
Castellana F. (1995), Il corpo stremato, in: "Il corpo e i suoi fantasmi", Rivista di Psicologia Analitica, 51
Corrao F.(1981), Il concetto di campo come modello teorico, Grupppo e funzione analitica,1
Correale A.(1991), Il campo istituzionale, Borla
Ferrari A.B.(1994), Adolescenza la seconda sfida, Borla, Roma-Rothenberg A.(1993), Adolescenza e disturbi alimentari: la sindrome ossessivo-compulsiva, in: Adolescenza, 4,2, Il Pensiero Scientifico
Jeammet P.(1972-1992), Psicopatologia dell'adolescenza, Borla, Roma,1992
Kaes R.(1976), L'apparato pluripsichico: costruzioni del gruppo, Armando, Roma 1983
Kohut H.(1966), La ricerca del sé, Boringhieri, Torino 1982
Marinelli S.(1995), Transfert istituzionale e rito in un gruppo di pazienti anoressiche, in: La domanda impossibile: dai primi colloqui all'entrata nel gruppo, a cura di L.Baglioni e M.Recalcati, F.Angeli, Milano
Neri C.(1995), Gruppo, Borla, Roma
Rosini E.(1995), Considerazioni sui disturbi alimentari: modelli conoscitivi ed espressioni mitologiche, in: "Il corpo e i suoi fantasmi", Rivista di Psicologia Analitica,5
Tagliacozzo R.(1986), Il Servizio di un DSM visto dal punto di vista di uno psicoanalista: modelli relazionali ed eventi trasformativi psichici, Gruppo e funzione analitica, VII,3
Vandereycken Ron van Deth W.(1994), Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche, Cortina, Milano 1995
Winnicott D.W.(1971), Gioco e realtà, Armando, Roma 1974

mercoledì 2 settembre 2015

LIBERARSI DAL DOLORE È UNA SFIDA DI GRUPPO



Il dolore oncologico è un intreccio di dolore fisico e psichico, tant’è che ai
farmaci antalgici spesso si accompagnano quelli per ridurre l’ansia o la depressione.
Il senso di perdita, la paura, la solitudine della condizione di malato, sentirsi un peso per la famiglia sono tutti aspetti di una sofferenza che annichilisce e toglie speranza e vitalità al malato.
Da alcuni anni presso l’Ospedale San Giuseppe di Milano si è avviato un progetto di supporto psicologico per pazienti oncologici in fase di terapia o di recidiva della malattia.
Lo strumento utilizzato è quello del gruppo di psicoterapia che permette ai pazienti di confrontarsi e meglio conoscere le proprie emozioni e il proprio vissuto: infatti, è più facile riconoscere il proprio dolore vedendolo riflesso e manifesto nelle esperienze degli altri.



Inoltre il progetto permette ai malati di condividere l’esperienza di paura e incertezza sul futuro, uscendo così dalla solitudine esistenziale in cui  rischiano di confinarsi e offre loro la possibilità di essere parte attiva in una esperienza di supporto psicologico e di aiuto reciproco.
Il nuovo adattamento che l’esperienza della malattia richiede è agevolato dall’appartenenza ad un gruppo che può costituire un ambito di sostegno tra la solitudine della malattia e il mondo fuori con il quale occorre continuare ad interagire, un “cuscinetto” che si trasforma in “trampolino”.


Testo tratto dall’articolo di Luigi Valera Liberarsi dal dolore è una sfida di gruppo in “Sanità al Futuro”, n.25, periodico di informazione del Gruppo MultiMedica

FONTE: http://www.luigivalera.it/liberarsi-dal-dolore-e-una-sfida-di-gruppo/