Risposta:
“Come può parlarmi di felicità quando tutta la mia vita è uno stress: il
lavoro, il traffico quotidiano, i litigi familiari, il tempo e i soldi che non
bastano mai, i figli da crescere e da controllare, gli impegni sociali, e poi
le tasse, le malattie, il mutuo, il terrorismo, l’inquinamento. E lei parla di
felicità? In quale mondo vive? E’ già tanto se raggiungo la serenità”.
Una
risposta che ricevo troppo spesso tra un misto di rassegnazione e di rabbia. La
felicità: pensarla e desiderarla sembra quasi scandaloso: è il nuovo tabù dei
tempi moderni.
Chi ne ha esperienza, in qualche momento della vita, la nasconde
con il silenzio, l’imbarazzo, la vergogna, la diffidenza e il timore. Di cosa?
Dell’ aggressività, dell’invidia e della frustrazione dei cosiddetti “altri”
che spesso si rivelano essere i propri familiari, le persone di cui ci si fida.
Quelli che hanno messo a tacere i propri sentimenti e i propri desideri, che
hanno perso quel navigatore interno - il personale senso della felicità - e diventano
dirottatori sabotatori di quello degli altri.
Ma cos’è la felicità? Comunemente
è considerata un traguardo, uno stato di soddisfazione legato alla soluzione di
problemi o al raggiungimento di obiettivi desiderabili, di un benessere
economico permanente.
Possiamo pensarla in un altro modo? Un’ ulteriore senso
che ci è dato per natura, una modalità percettiva che ci suggerisce, sussurra,
spinge, orienta verso il nostro benessere, verso le persone, le situazioni
conformi al nostro autentico modo di essere. Un senso che perdiamo durante la
crescita; c’è chi lo chiama il “paradiso perduto o la “caduta” da uno stato di
grazia. Può accadere così, da bambini. Una volta, abbiamo confessato un segreto
desiderio del cuore, o mostrato a qualcuno di essere felici. Con
quell’apertura, quello splendore, quel sorriso tipico di chi avverte e si sente
pervaso dalla sensazione di un totale appagamento; semplicemente perché si
sente connesso con una fonte di felicità invisibile, non definita. O magari, in
occasione di semplici avvenimenti. Inaspettatamente, dopo quel sorriso, abbiamo
sentito abbassare il livello energetico della felicità, è cambiato l’umore, si
è interrotto di colpo qualcosa ed è arrivato un buio, è affiorato un disagio,
uno strano senso di colpa, la sensazione di aver commesso qualcosa di
sbagliato, di aver tradito qualcuno che non era felice come noi. Perché non
poteva più esserlo o forse…non voleva.
E d’improvviso un pericolo, e ci siamo
protetti.
Come? Come si fa con un qualsiasi trauma: l’abbiamo rimosso. Abbiamo
ricacciato nell’inconscio quel senso di felicità perché si è trasformato in un
dolore, in una paura, pericolosa da rivivere e lo reprimiamo ogni volta che
riemerge fino a dimenticarlo. Ogni tanto, negli anni riaffiora: “”Mi sento
felice, mi sento bella/o, sento che tutto è possibile”. Ma ora sappiamo cosa
fare per non soffrire. Ormai, siamo andati a scuola dell’Ego che ci dice:
”Attenta/o! Dove sarà la fregatura? Quanto durerà? Quanto pagherò per questo?
Quando arriverà la punizione?” Meglio di no…”. Così ci abituiamo a non stare
bene, ad essere diffidenti verso le sensazioni e le emozioni che ci
sorprendono, che ci informano che qualcosa di bello sta arrivando. “No! A me?
Proprio no!” Si chiama paura e rimozione della felicità. Proprio così. Esiste.
Uno studio condotto nel 2010 da alcuni ricercatori statunitensi (Olatunji O
et.al) lo ha messo in evidenza. Le emozioni ma anche i pensieri, le fantasie, i
desideri gratificanti sarebbero vissuti come potenzialmente pericolosi, come
una minaccia da cui difendersi perché ci fanno perdere l’autocontrollo e quindi
ci renderebbero vulnerabili. Vengono chiamati disturbi nella sfera dell’umore o
disregolazione, cioè incapacità di gestire le emozioni positive che sarebbero
invece subìte come tempeste da cui proteggersi. E’ questa la nevrosi moderna:
quella ontologica, cioè l’incapacità non solo di trovare il senso e il
significato della propria vita, ma di riconoscere e vivere il senso della
felicità. Anche l’attacco di panico a volte è la reazione errata ad un suo
avvicinarsi, una “fuga dalla felicità”. L’ho verificato molte volte con persone
molto educate, rispettose delle regole che fin da piccole si sono abituate a
controllare le emozioni, quelle belle, spumeggianti perché non conformi ad un
certo modello educativo. E quando c’è la possibilità di più gioia, scappano. E
cosa serve per sconfiggere la paura? Il coraggio. Parola che ha la stessa
radice etimologica di cuore: un’esigenza, un’azione che parte dal cuore, come i
desideri, anch’essi repressi. Sembra assurdo ma ci vuole il coraggio per essere
felici. Il coraggio di riscoprire questo senso che ci fa sentire più vivi, che
cerchiamo in molti modi anche sul lettino dello psicanalista. Ma anche la
Psicologia tradizionale è troppo concentrata a risolvere problemi, a parlare di
malattie, di conflitti e dolore, a riportare alla normalità. E invece, dovrebbe
avere come punto di partenza la ricerca della felicità. La Psicologia della
felicità (da non confondere con il Pensiero positivo), intesa come un modo di pensare
e agire basato su nuovi significati, nuove interpretazioni delle esperienze e
delle emozioni non date dall’esterno, ma vissute e sperimentate in prima
persona attraverso il recupero del personale senso di conoscenza che è la
felicità. E poi, sostenere la pratica della virtù per seguirla, mantenerla e
proteggerla. E’ una ricerca coraggiosa che implica il riconoscimento delle
responsabilità nelle scelte fatte e in quelle da fare, l’attraversamento dei
momenti di crisi guardandoli come opportunità, il rivolgersi domande scomode,
il crollo delle false illusioni e lo smascheramento dei piccoli e grandi
tradimenti commessi contro se stessi. Ci vuole coraggio, si. Per disseppellire
i dolori e trasformarli in amore e consapevolezza, per dissociarsi dal comune
pensare, dalla rassicurante normalità che imprime una sola direzione verso la
sfiducia, lo scetticismo, l’impossibilità del cambiamento. Il coraggio di
cambiare gli amori, le amicizie, le abitudini, il coraggio di cambiare strada.
Allora, onestamente rispondiamo: “Ce l’abbiamo il coraggio di essere felici? “
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