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mercoledì 20 luglio 2016

PSICOLOGIA E CANCRO: L'IMPORTANZA DELLA TERAPIA DI GRUPPO

Il cancro è un qualcosa capace di paralizzare, di annientare, una minaccia alla propria identità ed integrità, al proprio equilibrio emotivo; è un fenomeno in grado di scatenare una catastrofe esistenziale, di stravolgere vite umane, non solo a livello fisico ma anche psicologico, non è possibile infatti separare il corpo dalla sfera psichica.


Nell’immaginario individuale e collettivo il cancro continua ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, angoscia, impotenza, morte sicura (Costantini, Grassi e Biondi, 1998). Dopo una diagnosi di cancro certamente tutto cambia di significato: le relazioni familiari, sociali e professionali, il rapporto con il proprio corpo, i propri valori, i significati attribuiti alla sofferenza e alla morte.
Di fronte a questi inevitabili cambiamenti può generarsi un persistente stato di confusione, un senso di impotenza, di disequilibrio e di solitudine, il tutto spesso aggravato dalle reazioni di parenti ed amici. La popolazione oncologica è soggetta di fatto ad un alto rischio psicopatologico, dal momento che si trova ad affrontare situazioni a dir poco stressanti come la diagnosi, la debilitazione, la mutilazione, le terapie aggressive; senza dimenticare poi lo stato di dipendenza che si può generare, l’allontanamento forzato o non dal proprio ambiente di vita ed infine il rischio di morte.
Il paziente oncologico ha bisogno così di essere curato in tutti gli aspetti della sua patologia; è opportuno prendersi cura dei correlati psicologici che la malattia porta con sé, vanno battute tutte le strade che conducono al miglioramento della qualità di vita dei pazienti, circoscrivendo il rischio di effetti psicopatologici che potrebbero aggravare il quadro clinico. 

La psicologia in questo modo si fa spazio nell’oncologia, è sempre più determinata ad assumere un ruolo rilevante nell’assistere i pazienti affetti da cancro. Le consistenti ricerche incoraggiate in questo ambito indagano oltre alla presenza di disturbi psicologici e alla valutazione della qualità di vita, anche le strategie di informazione, le tecniche di sostegno psicologico, i modelli di supporto sociale e quanto ancora rimane da scoprire. 
Un aiuto psicologico diviene così importante per gestire gli eventi stressanti scaturiti dalla malattia, per contenere i fattori emozionali, le reazioni psicologiche del paziente che potrebbero influenzare negativamente il decorso della malattia fisica stessa. Il bisogno di aiuto psicologico risulta molto elevato dal momento in cui il disagio psichico secondario alle patologie oncologiche investe circa la metà dei pazienti ed un terzo dei familiari. 

In presenza di gravi malattie infatti, diviene molto importante esaminare l’emergere di problemi connessi all’affrontare la malattia ed il suo trattamento, diventa indispensabile aiutare le persone a vivere fronteggiando e gestendo le conseguenze personali, sociali, professionali della patologia; la paura di ricadute o di morte, lo stress familiare, l’isolamento sociale, la riduzione di energie, l’alterazione dell’immagine corporea (Spiegel e Giese-Davis, 2002) non sono certo inoffensivi.
Secondo alcune ricerche lo stress emotivo e la sua gestione potrebbero essere in relazione all’incidenza del cancro ed al suo avanzare gli stati emotivi, soprattutto quelli estremi e cronici potrebbero influenzare gli aspetti fisiologici e le abilità di coping. È importante quindi indagare i possibili effetti fisiologici dello stress sulla progressione della malattia così da sviluppare e valutare nuovi trattamenti. (Spiegel e Giese-Davis, 2002). La diagnosi e il trattamento di cancro scatena un range di emozioni come ansia, paura, tristezza ed angoscia. La gestione di esse rappresenta un problema non marginale per i pazienti e fornisce un’opportunità terapeutica. (Spiegel e Giese-Davis, 2002).

Le terapie psicologiche assistono il paziente oncologico in ogni fase della malattia, le dimensioni psicologiche vengono colte dalla diagnosi alla fine del trattamento. Questi interventi hanno lo scopo di diminuire nel paziente oncologico i sentimenti di alienazione, isolamento, impotenza, il sentirsi trascurato. 

Attraverso il trattamento si cerca di ridurre l’ansia, di chiarire percezioni ed informazioni errate che talvolta possono essere pericolose; si aiuta le persone a sentirsi meno inette e sfiduciate, incoraggiandole ad acquisire maggiore responsabilità e rispondenza ai trattamenti medici. (Fawzy and Fawzy, 1998). Infatti come sottolinea Toscano (2001), le più frequenti espressioni dirette della crisi del malato oncologico sembrano essere: ilrifiuto, come negazione della propria malattia ed ostacolo alla compliance in fase terapeutica; l’ansia, come paura della solitudine, della morte, della perdita di capacità fisiche e possibilità affettive; la depressione come rassegnazione, perdita di motivazioni, emozioni tale da portare ad un declino psicofisico devastante.
Davanti alla crescente consapevolezza di questi problemi associati ad una così grave malattia ed al suo trattamento, si è sviluppata una varietà di interventi supportivi per pazienti e familiari. Tali terapie hanno positivi effetti psicologici e fisiologici. La loro efficacia dipende dalla formazione ed abilità del terapeuta, dal rapporto di quest’ultimo con i pazienti, dalla natura e dal contenuto dell’intervento, dagli obiettivi principali e dagli esiti previsti.
La letteratura in merito si focalizza su quattro principali tipologie di interventi -behavioural therapy (includendo rilassamento, biofeedback e ipnosi); educational therapy (includendo formazione in abilità di coping e fornisce informazioni così da aumentare il senso di controllo del paziente); psychotherapy (includendo counselling); e support groups (aiutano le persone ad esprimere le loro emozioni)- evidenziando nel tempo un incremento della loro efficacia (Fallowfield, 1995).

La psicoterapia non rappresenta una terapia alternativa, ma uno strumento importante per alleviare la sofferenza psicologica dei pazienti e dei familiari determinata dalla malattia (Costantini, Grassi e Biondi, 1998).

Meyer and Mark (1995) hanno classificato i risultati di uno studio su diversi interventi psicosociali in cinque categorie principali:

1. Adattamento emozionale (stato dell’umore, autostima, locus of control, negazione, repressione);
2.   Adattamento funzionale (socializzazione, ritorno al lavoro);
3.   Sintomi legati alla malattia o al trattamento (nausea, dolore);
4.   Esiti medici (risposta del tumore, avanzare della malattia);
5.   Esiti globali (combinazione delle 4 precedenti categorie).

Dopo gli interventi terapeutici proposti sono stati ottenuti significativi effetti per tutte le categorie tranne per gli esiti medici.
Un trattamento che ha riscosso particolare attenzione nella psiconcologia è la terapia di gruppo.

I problemi fisici e psicologici incontrati da pazienti affetti da cancro sono numerosi ed unici; queste persone sembrano trarre un qualche beneficio dai programmi di intervento psicologico, in particolare quelli che impiegano come formato il gruppo.


In oncologia si possono impiegare gruppi psicoterapeutici condotti da professionisti, basati sulla comunicazione verbale, in cui il singolo membro è oggetto del trattamento e il gruppo diviene il principale fattore terapeutico. (Costantini e Grassi, 2004). Secondo alcune prospettive teoriche il gruppo assume le vesti di un microcosmo sociale con significative proprietà terapeutiche in sé; all’interno di esso si maturano esperienze di apprendimento interpersonali che rappresentano un forte meccanismo di cambiamento (Costantini e Grassi, 2002).
A partire dalla seconda metà del Novecento in America sono nati i primi gruppi terapeutici, considerato il successo ottenuto dai gruppi di alcolisti e di malati mentali. Con la creazione di gruppi di pazienti neoplastici si è cercato di prevenire problemi come ansia, depressione, dando informazioni, consigli e supporto emozionale ai membri.
Il gruppo in oncologia, in particolare quello di tipo supportivo, sembra avere maggior efficacia clinica rispetto ad interventi individuali; non si può certo negare che esso migliori le capacità di reazione alla malattia mediante l’osservazione delle modalità di reazione dei membri del gruppo. Quest’ultimo diviene il contesto di condivisione ed analisi degli ostacoli comuni, sviluppando un senso di universalità che allevia la sensazione di solitudine e di impotenza. Questo intervento propone come area focale il significato delle relazioni interpersonali, considerate come forza motrice del gruppo e area focale dell’intervento; contrasta i sentimenti di impotenza e inutilità mediante l’aiutarsi a vicenda tra i membri; migliora la capacità di comunicazione ed espressione emozionale sia nel qui e ora del gruppo che nella realtà esterna (Grassi, Biondi, Costantini, 2003) 

Negli ultimi anni sono stati integrati diversi orientamenti di terapie di gruppo e sottolineando gli elementi di base comuni ai diversi modelli si è giunti a spiegare una maggiore quantità di effetto terapeutico a confronto delle singole tecniche. L’efficacia clinica delle terapie di gruppo con pazienti affetti da cancro di diverso tipo è stata indagata relativamente a “qualità di vita, compliance al trattamento medico, capacità di comunicazione e relazione con medici, modalità di affrontare la malattia e convivere con la malattia, ansia, depressione, dolore e relazioni con familiari” (Costantini e Grassi, 2002). 

In letteratura possono essere evidenziati alcuni diversi modelli di intervento, riconducibili a tre categorie di gruppi terapeutici, che permettono di orientarsi tra i vari filoni in cui è andata sviluppandosi la terapia di gruppo in oncologia: gruppi di informazione-educazione, gruppi con focus cognitivo e coping skill training, gruppi interpersonali di “recupero” o di “supporto” ad orientamento esistenziale (Costantini e Grassi, 2002). Nelle prime due tipologie il conduttore utilizza uno stile deduttivo o interattivo: non viene sfruttato a pieno il fattore “interazione di gruppo”, ma sono previste tecniche utilizzate in genere nel setting individuale.

Nei gruppi di educazione, lo scopo diviene di fornire elementi per la prevenzione e di aumentare la conoscenza della malattia e del trattamento. Si arriva così a migliorare il senso di controllo e la percezione di efficacia personale sia nei pazienti che nei loro familiari, riducendo lo stress successivo alla diagnosi. Sottoforma di lezioni o workshop, le informazioni vengono trasmesse da figure professionali coinvolte nel trattamento. I gruppi psicoeducazionali sono piuttosto brevi e condotti con uno stile deduttivo -didatticamente orientati, con interazione limitata a eventuali domande poste dai partecipanti- e migliorano la conoscenza della malattia e del trattamento, aumentando l’aderenza al regime terapeutico e l’adattamento funzionale. Sono particolarmente indicati a pazienti a rischio genetico o che da poco hanno ricevuto una diagnosi di cancro o ai loro familiari. 

La seconda tipologia -gruppi con focus cognitivo- è rivolta a pazienti già in cura. Questi gruppi sono orientati alle modalità individuali di risposta emotiva e comportamentale; generalmente sono alquanto brevi (12-15 sedute) e strutturati. Lo stile di conduzione viene definito in prevalenza interattivo; un approccio cognitivo comportamentale viene integrato solitamente ad alcuni aspetti affettivi ed esistenziali. Viene stimolata un’aperta espressione e consapevolezza delle proprie reazioni emozionali ed una comunicazione autentica all’interno del gruppo, una formazione specifica per migliorare la capacità di far fronte alla malattia promuovendo comportamenti che favoriscono la salute. In genere siamo davanti ad un approccio strutturato in cui sono proposte parti didattiche ed esperenziali di esercizi o discussioni che migliorano la gestione di alcuni sintomi e favoriscono l’abilità di risposta alla malattia. 

La terza categoria si rivolge a pazienti in fase avanzata della malattia, a quelli in cui è progredita nonostante le cure, insomma a chi desidera una revisione più estesa della propria vita dopo il cancro (Costantini e Grassi, 2002). In genere sono gruppi duraturi (oltre sei mesi), che permettono l’espressione autentica dei sentimenti e delle preoccupazioni personali. Condotti con stile induttivo, da conduttori esperti in questioni di gruppo che promuovono la coesione tra i membri attraverso la gestione della discussione, della rete di relazioni e delle dinamiche di gruppo. 
I contenuti sono proposti dai pazienti, non strutturati, centrati sul processo di gruppo e facilitati dal terapeuta. Questa tipologia migliora l’adattamento emozionale, favorendo supporto, revisione delle priorità, recupero della progettualità esistenziale, l’affrontare il significato personale del vivere e del morire. 

Questi gruppi interpersonali di recupero e di supporto a orientamento esistenziale trovano un fondamento sulla constatazione che le difficoltà incontrate dai pazienti neoplastici sono di natura esistenziale (Serblin e al, 2000). La terapia di gruppo supportivo- espressiva è designata infatti per enfatizzare la regolazione e l’espressione delle emozioni: il suo focus esistenziale concerne l’ansia della morte, l’isolamento, le responsabilità. In tale terapia sembrano così emergere alcuni temi fondamentali: costruzione di legami, espressione dei sentimenti, ricostruzione delle priorità nella vita, l’accordarsi con i dottori, placare il dolore (Spiegel e Classen, 2000).

I terapeuti incoraggiano l’espressione delle emozioni personali e un mutuo supporto tra i membri del gruppo: l’espressione delle emozioni primarie (angoscia, paura, tristezza) è uno specifico pilastro della terapia. La psicoterapia riduce così la soppressione delle emozioni sfociando in un livello di stress inferiore, come emerge da una ricerca su pazienti con metastasi al seno (Classen et al. 2001). 
L’espressione delle emozioni più forti in un setting supportivo permette di accrescere il sostegno sociale, costruendo forti legami tra i membri in modo da sconfiggere l’isolamento caratteristico dei pazienti con cancro. 
Il partecipare ad una terapia di gruppo permette confronti con aspetti difficili di una simile esperienza, un confronto capace di dirigere la crescita delle abilità dei pazienti nel far fronte alle proprie paure di morte, una migliore gestione dei sintomi e ricostruzione delle priorità. Spesso si ricorre all’aiuto di persone sopravvissute che avendo appreso come interfacciarsi alla malattia possono aiutare gli altri a farlo. Una simile terapia incoraggia i partecipanti ad assumere un ruolo attivo nel loro trattamento, a sentirsi liberi di fare domande, ad aprirsi agli altri ed a sé stessi, riducendo il senso di isolamento ed incomprensione. Molti partecipanti instaurano legami profondi di amicizia ritrovandosi anche al di fuori dal gruppo. Insieme hanno condiviso, preso parte alla costruzione di un nuovo senso di sé, di nuove priorità e responsabilità, alla ricostruzione di linee di comunicazione con persone importanti (Serblin e al., 2000). All’interno di questi gruppi i soggetti trovano uno spazio in cui possono affrontare delicate tematiche, che probabilmente al di fuori di quel contesto eviterebbero di trattare, come ad esempio il significato della malattia, “perché io”; in un simile luogo le loro paure ed angosce possono essere esplorate e magari gestite. 

In sintesi lo scopo di un simile gruppo è quello di creare un ambiente dove i pazienti ricevono supporto dagli altri ed esprimere a pieno sentimenti ed idee (Serlin, 2000), si scambino informazioni ed esperienze, si trovi supporto ai problemi personali. Il gruppo assolve la funzione di contenitore di tutte queste angosce (Costantini e Grassi, 2004). 
Un intervento strutturato, formato da aspetti di educazione alla salute, formazione/gestione dei comportamenti, coping (incluse tecniche di problem solving) e gruppi di supporto psicosociale, sembra offrire benefici significativi per pazienti con recente diagnosi o ai primi stadi del trattamento in cui il focus diviene apprendere a vivere con il cancro (Fawzy e Fawzy, 1998). Gli interventi di gruppo devono essere usati come una parte integrante dell’assistenza medica e mai come indipendente. 
Compete al terapeuta prendere decisioni circa la composizione, il formato, le dimensioni dei gruppi (Costantini e Grassi, 2002). Nelle terapie di gruppo non sembrano buoni candidati i pazienti affetti da forte deterioramento cognitivo, patologia grave del carattere, con grave depressione o disturbi psicotici, con aspettativa inferiore ai sei mesi o con problematiche pressanti non condivisibili, e chi rifiuta di partecipare. Sembra auspicabile organizzare gruppi omogenei per fase e sede di malattia: in questo modo viene incoraggiata una maggiore coesione e comprensione, dal momento che si presentano le medesime difficoltà da fronteggiare. Di norma si tende a separare i gruppi in fase avanzata della patologia da quelli in stadio iniziale. 
I gruppi inoltre possono essere aperti o chiusi (iniziano e finiscono insieme) e più o meno numerosi a seconda del tipo di intervento. Diversi gruppi possono rivelarsi utili in distinte fasi della malattia; per quanto riguarda l’area della prevenzione primaria l’uso dei gruppi si è rivelato efficace in persone con un maggior rischio di ammalarsi. Alcuni studi sulle terapie di gruppo con pazienti che hanno già manifestato la malattia hanno evidenziato che il gruppo migliora l’adattamento alla malattia. 
Sembra che i gruppi brevi (12-16 sedute) e strutturati di terapia cognitivo comportamentale migliorano l’adattamento nei pazienti in fase iniziale di malattia. Coloro che si trovano già in fase avanzata della malattia beneficiano di trattamenti di gruppo senza un tempo definito a priori, non strutturati e fondati su un’interazione tra i membri. L’utilità dei singoli gruppi sembra sia significativamente correlata all’obiettivo del terapeuta e alla tecnica e stile di conduzione conseguentemente scelti. 

Un altro tema da affrontare in questo ambito riguarda la formazione del terapeuta. Egli dovrebbe possedere una buona esperienza nella terapia di gruppo, così come nel lavorare con pazienti oncologici, essere abile nello stabilire relazioni significative, gestire le forti reazioni che potrebbero scatenarsi in sé, affrontare la sofferenza (Serlin, 2000). Deve essere capace di mantenere il suo ruolo anche se a volte sarebbe utile varcare i confini, essere emozionalmente presente, possedere “una mente capace di commuoversi e di stupirsi” (Neri, 2002), aiutando il gruppo a fare altrettanto.
Il terapeuta dovrebbe favorire la cultura del gruppo, un insieme di norme proprie che rappresentano il set esplicito ed implicito di ruoli e comportamenti attraverso il quale il gruppo conduce se stesso. La cultura di gruppo contribuisce alle condizioni di sicurezza e di accettazione (Serlin, 2000). Alcune di queste norme includono il sentirsi liberi di interagire spontaneamente, onestamente, accettazione e non valutazione degli altri, stabilire il focus sul problema cancro, informazioni sulle assenze. 
Lo scopo di una simile terapia non è diretto al cambiamento della personalità, ma si rivolge al qui ed ora, cercando di promuovere la manifestazione di quelle emozioni descritte precedentemente. 
Il conduttore dovrà essere capace di facilitare interazioni supportive, sviluppare la comunicazione in ogni direzione possibile, incoraggiando l’espressione di sentimenti e pensieri, evitando che i pazienti si esprimano in modo astratto e impersonale. Può risultare utile inoltre spingere a prender parte ai propri trattamenti, monitorando il loro disagio, facendo attenzione ai sintomi, collaborare con i medici. 
Oltre ai cambiamenti psicologici, alcune ricerche hanno considerato alcune modificazioni biologiche come esiti di interventi di gruppo o addirittura ci sono stati studi che hanno cercato di evidenziarne gli effetti sulla sopravvivenza di pazienti con cancro. Sono state valutate le conseguenze di un intervento di gruppo in termini di qualità di vita, sconforto psicologico, abilità di coping, funzioni immunitarie e tempo di sopravvivenza (Hosaka e al., 2001). 

Spiegel e coll. (1989) hanno riportato che le pazienti con cancro al seno, dopo aver ricevuto un intervento di gruppo, hanno mostrato maggior sopravvivenza rispetto al gruppo di controllo. Anche Fawzy e coll. (1993), in seguito ad una terapia simile, hanno evidenziato una riduzione di sconforto emozionale, miglioramento del funzionamento immunitario e una minor percentuale di ricadute o morti. Secondo Goodwin e colleghi (2001) la psicoterapia di gruppo migliora la qualità di vita di pazienti con cancro, ma non la quantità: si riduce il dolore e lo stress, si vive meglio dunque ma non più a lungo. 

Edelman e coll. (2000) in una ricerca hanno compiuto un excursus degli studi che sono riusciti oppure hanno fallito nel trovare conferma alla relazione tra psicoterapia e tempo di sopravvivenza. 
La letteratura appare così divisa sulla questione dei benefici della terapia sulla sopravvivenza, in ogni modo la terapia di gruppo per pazienti oncologici potrebbe ugualmente essere prescritta per i suoi vantaggi psicologici, per l’effetto positivo sulla qualità di vita, se non necessariamente perché prolunga l’esistenza (Spiegel, 2001). 
In Italia qualcosa si sta muovendo in questo senso, ma siamo ancora agli inizi, molta strada è ancora da percorrere, pochi centri hanno sviluppato programmi di psicoterapia di gruppo. Alcune esperienze significative in questo campo sono state compiute da Grassi sulla psicoterapia supportivo- espressiva e da Costantini sulla psicoterapia di gruppo a tempo limitato (Costantini, 2000). È importante così incoraggiare l’importazione attiva delle terapie di gruppo in Italia, adattandole alla realtà, alla cultura italiana poiché, guardando la letteratura in merito, non è possibile negare che i gruppi proteggano i pazienti da uno stress continuo, forniscano l’opportunità di dare e ricevere supporto, di esprimere i loro pensieri e sentimenti inerenti il significato di come sia vivere con una simile malattia. Considerando gli aspetti psicologici della malattia viene tutelata la salute psicofisica del malato che può sentirsi equipaggiato ad affrontare al meglio la propria malattia. 

Di fronte ad un simile scenario non si può far altro che accogliere l’importante contributo dato dalla terapia di gruppo ai pazienti oncologici in un momento critico della loro vita. La psiconcologia dovrà integrare i trattamenti medici, dovrà mettere a disposizione le proprie risorse, promuovendo una visione globale della patologia, in cui domina un’influenza reciproca tra psiche e soma. 

Bibliografia
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·   Costantini A., Grassi L., "Gli interventi di gruppo", in Bellani M. Marasso G., Amadori D., Orrù W., Grassi L., Casali P., Bruzzi P., Psiconcologia, Masson, Milano 2002. 
·       Costantini, A., Grassi, L.,Biondi, M. (1998). Psicologia e Tumori. Una guida per reagire. Il Pensiero Scientifico Editore. 
· Danner D.D., Snowdon, D.A., Friesen, W.V (2001).positive emotions in early life and longevity: findings from the nun study. Journal of Personality and Social Psychology. Vol.80;804-813
·     Edelman, S., Craig, A., Kidman, A.D.(2000). Can psychotherapy increase the survival time of cancer patients?. Journal of Psychosomatic Research. Vol.49;149-156. 
·   Fallow,L. (1995). Psychosocial Interventions in cancer. Bmj. Vol311 ; 1316-1317. 
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·      Fawzy, F., Fawzy, N.W., Huyn, C.S., Elashoff, R.(1993). Effects of an early structured psychiatric intervention, coping and affettive state on recurrence and survival six years later. Arch. General Psychiatry. Vol.50;681-689. 
·     Goodwin, P.J, Leszcz, M., Ennis, M. et al. (2001). The effect of group psychosocial support on survival in metastatic breast cancer. The New England Journal of Medicine. Vol.345; pp1719-1726. 
· Grassi L., Biondi M., Costantini A., Manuale pratico di Psiconcologia, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2003.
·       Hosaka, T., Sugiyama, Y., Hirai, K., Okuyama, T., Sugawara, Y., Nakamura, Y.(2001). Effects of a modified group intervention with early-stage breast cancer patients. General Hospital Psychiatry, Vol.23;145-151.
·   Meyer, T.J, Mark, M.M.(1995). Effects of psychosocial interventions with adult cancer patients: a meta-analysis of randomized experiments. Health Psychology vol.14:101-8. 
·       Neri C., Comunicazione personale, 2002. 
·       Serlin, I.A, et al. (2000). Symposium :support groups for women with breast cancer : traditional and alternative expressive approaches. The arts in Psychotherapy. Vol. 27 (2); pp.123-138.
·   Spiegel, D. (2001) Mind Matters-group therapy and survival in breast cancer. The New England Journal of Medicine. Vol.345, n.24, pp1767-1768.,
·  Spiegel, D., Bloom,J.R, Kraemer, H.C e al.(1989). Effect of psychological treatment on survival of patient with metastatic breast cancer. Lancet, 888-891.
·  Spiegel, D. e Classen, C., (2000). Group therapy for cancer patient: a research-based Handbook of Psychosocial Care, Basic Books, New York. 
·       Spiegel, D., Giese-Davis, J.(2002). Reduced emotional control as a mediator of decresing distress among breast cancer patients in group therapy. International Congress Series. Vol.1241;pp.37-40. 
Sti internet consultati
Ø     www.stpauls.it/fa_oggi/ (Psicoterapia di gruppo in oncologia di Anna Costantini e Luigi Grassi, 2004) 
Ø ww2.unime.it/oncologiamedica/Convegni/Congresso (Terapie psicologiche in oncologia di Lucia Toscano, 2001)

giovedì 23 giugno 2016

IL TIFO DA STADIO? Te lo spiega la psicologia sociale



Quante volte vi sarà capitato, mentre siete allo stadio a vedere il vostro sport preferito, di considerare il vostro avversario non solo un rivale, ma anche una squadra/atleta dotata/o di caratteristiche negative fra cui incapacità, scorrettezza, antisportività e forse persino sgradevolezza anche solo nei colori delle maglie e dei volti? È quasi sempre così, il rivale, “l’altro”, spesso possiede caratteristiche indesiderabili ai nostri occhi...il tifo, o meglio, gli effetti generati dal tifo, causano una serie di bluff nella nostra mente a cui spesso e volentieri cadiamo a piedi pari... Non si tratta tanto del fenomeno della violenza negli stadi, quanto piuttosto delle sensazioni che può avere un qualsiasi tifoso occasionale.

Il tifo è forse l’elemento fondamentale dell’esistenza di uno sport: uno sport che non ha un certo seguito difficilmente riesce ad emergere e sopravvivere. In Italia è il calcio a farla da padrone, seguito da pallacanestro, pallavolo e motorsport. Il tifo però, dicevamo, può causare effetti collaterali anche al più classico “buon padre di famiglia”, al di là di quale sport si tratti e della categoria in cui viene praticato (ad essere del tutto onesti, il “buon padre di famiglia” spesso si distingue in negativo proprio nell'habitat delle categorie giovanili. Perché persone apparentemente normali si lasciano a volte andare agli istinti più aggressivi?

Una risposta, a mio parere decisamente valida, ce la fornisce la Psicologia Sociale: si tratta di una particolare branca della Psicologia che si occupa dello studio dei processi sociali e cognitivi, del modo in cui persone che entrano in relazione fra di loro si percepiscono e si influenzano. L’obiettivo che si pone, attraverso un approccio scientifico, è quello di cercare di spiegare i fenomeni sociali, le reazioni e le percezioni di individui in interazione, spesso all’interno di contesti usuali e ripetibili.

Cosa ci dice la Psicologia Sociale riguardo al tifo? La risposta è spiazzante: innumerevoli processi avvengono nel nostro cervello, in maniera pressoché automatica, al punto che i più integralisti potrebbero anche pensare che in determinati contesti siamo solo delle marionette guidate da pre-giudizi (intesi come pre-conoscenze di un determinato fatto, condizione, o situazione generale).

Vediamo alcuni di questi fenomeni, prendendo ad esempio la classica partita di calcio:

La premessa principale è l’Euristica: il nostro cervello, quando è in affanno, si basa su modelli denominati “euristiche” che gli permettono di trovare una pronta risposta (una risposta che l’individuo valuta “sufficiente”) nei casi in cui non vi siano tutte le risorse cognitive a disposizione. E’ il cosiddetto processo automatico (o elaborazione superficiale). Una volta compresa l’esistenza di queste euristiche è più facile capire anche cosa avviene durante un partita. Il coinvolgimento emotivo e cognitivo del tifoso lo porta ad avere minori risorse del solito pertanto la possibilità che si attuino delle euristiche è molto elevata. Le principali che si possono verificare riguardano quelle relative alle relazioni fra i gruppi (2 squadre in campo più 2 “squadre” di tifosi sugli spalti) fra cui:

– Categorizzazione: attribuiamo le cause di un comportamento di una persona al fatto che faccia parte di quella specifica categoria. “Quella è la squadra dove rubano i campionati”, “quella è la squadra dei tuffatori”, etc. Se un giocatore è scorretto allora vuol dire che tutta la squadra e i suoi tifosi sono scorretti (diventa perciò uno stereotipo). Mentre per quanto riguarda il proprio gruppo la valutazione è ben diversa, infatti consideriamo una mosca bianca il “compagno” che commette uno sbaglio.

– Omogeneità:“loro”, gli altri, ci sembrano tutti uguali, tendenzialmente “brutti” e con minor valore rispetto a “noi”.

–Contagio emotivo:le emozioni del gruppo si insinuano nei singoli individui. Se io sono di buonumore, ma il gruppo è estremamente aggressivo, tenderò ad allinearmi all'atteggiamento generale, pena la perdita dei miei benefici dell’essere nel gruppo (sia ben chiaro, il tutto in maniera inconscia).

–Condizionamento classico nei gruppi:simile al punto precedente, in questo caso si tratta delle emozioni esperite nell'interazione con altri gruppi (ad esempio la curva avversaria). Le emozioni vissute, con il tempo tendono a diventare intrinseche nel gruppo stesso (se io ho dei rapporti negativi con i tifosi dei “pinguini blu”, con il tempo tenderò a considerare le emozioni negative che io vivo, come invece elemento caratterizzante dei “pinguini blu”, comunemente come avviene nel meccanismo di proiezione.

Identità e difesa del gruppo: quando non c’è un premio in palio, due gruppi nutrono una leggera antipatia di fondo (si tratta del loop per cui, chi fa parte del mio gruppo è “sicuramente” più simpatico di un esterno poiché… appartiene al mio gruppo!). Quando invece il gruppo esterno rappresenta una minaccia (nel caso sportivo una nostra sconfitta) ecco allora manifestarsi sentimenti più intensi, che nei casi peggiori possono portare anche a forti discriminazioni.

I punti sopra elencati sono solo una piccola parte delle regole che ci guidano ogni volta che siamo lì a tifare per i nostri colori. L’idea di una “marionetta guidata da euristiche” è sicuramente molto forte, ma sapere e comprendere che siamo spesso in balìa di fenomeni che sono stati studiati e hanno un nome, quando fino ad oggi credevamo realmente che i “pinguini blu” fossero fondamentalmente malvagi, deve perlomeno far riflettere. In effetti è solo l’elaborazione sistematica, l’unico rimedio a queste forme di pensiero “primordiale” abbinata alla conoscenza approfondita dell’avversario in quanto individuo. Un esempio di ciò ce lo dà il rugby con il terzo tempo e le sue classiche cene di fine partita con l’avversario. La sensibilizzazione al tifo non è nuova in Italia, in particolare è attivo da qualche anno il progetto “io tifo positivo” ideato dal compianto giornalista Candido Cannavò, quand'era direttore della Gazzetta dello Sport, che ha lo scopo di promuovere condividere una cultura sportiva positiva all'interno degli stadi.

Per meglio comprendere quali potrebbero essere le misure anti violenza diamo uno sguardo a cosa succede negli altri Stati europei. Gran Bretagna, Germania, Francia, ma anche Spagna e Belgio hanno regolamentato la materia con impostazioni diverse, ma con una comune impronta preventiva e repressiva.

La Gran Bretagna ha puntato molto sulla responsabilizzazione delle società tanto che ha affidato loro la sorveglianza all’interno degli impianti. Stewards privati pagati direttamente dai club sono in collegamento via radio con la polizia che rimane presente solo all’esterno degli stadi. Oggi le forze dell’ordine inglesi hanno la facoltà di arrestare e far processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale.

Il modello anglosassone è stato in parte recepito dalla Germania che, negli ultimi anni, ha ristrutturato gli impianti sportivi togliendo le barriere tra campo e tribune. Oltre alle telecamere esistono poi delle apposite sale con monitor controllati dalla polizia. Anche in questo caso si ricorre al supporto degli stewards pagati dai club.In Germania non esiste una legge nazionale in materia di sicurezza degli stadi e il Governo ha optato per un progetto volto a incoraggiare l’autodisciplina e l’autoresponsabilità dei tifosi stessi. Sta alle autorità regionali richiedere la presenza della polizia per quelle partite ritenute a rischio

Anche in Spagna esiste la figura dello steward, mentre spetta alla Commissione Antiviolenza statale imporre ai club il pagamento di forze di polizia aggiuntive in caso di partite potenzialmente pericolose. Negli stadi spagnoli è vietato introdurre bandiere e aste e i tifosi più violenti possono essere espulsi dagli stadi per tre, sei o anche più mesi.

La Francia invece nel 1993 si è dotata di una legge contro la violenza nello sport e dal 2003 ha sviluppato regole più rigide.

Per quanto riguarda il Belgio è stato invece avviato il progetto ‘Football Fan Card’, una sorta di tessera del tifoso obbligatoria per l’acquisto di un biglietto, dotata di microchip con tutti i dati utili per l’identificazione del tifoso.
 

FONTI: http://www.lecconotizie.com/rubriche/psicologia-dello-sport/il-tifo-da-stadio-te-lo-spiega-la-psicologia-sociale-90470/

http://www.eunews.it/2014/05/06/violenza-negli-stadi-ecco-come-la-combattono-negli-altri-paesi-europei/15317

domenica 24 aprile 2016

EMOZIONI IN CORPO. Un'esperienza di libertà in gruppo



Bellissima esperienza di GRUPPO il 23 Aprile al seminario organizzato dall’Associazione Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara sulla Danza Movimento Terapia.

La dott.ssa Ivana Siena ha presentato la Psicologa e Danzaterapeuta dott.ssa Sabrina Agostinone nel seminario dal nome “EMOZIONI IN CORPO”.

Di seguito alcune foto.






Ciò che è emerso dalle parole della dott.ssa Agostinone ha avuto il sapore della passione per un’arte che si esprime su tantissimi livelli, il corpo, gli sguardi, la musica quindi il saper ascoltare, parlare danzando, ma anche l’ascolto del proprio corpo in contatto con un elemento fondamentale: il suolo... lo spazio, la terra. 



Di ascolto si è parlato anche quando la dimostrazione pratica ha portato i partecipanti ad incontrarsi tra loro, prima da bendati in movimenti casuali che facevano incontrare i loro corpi,
in seguito in un esercizio di coppia attraverso cui l’uno si è messo in “ascolto” del corpo dell’altro.  



 
Libertà, creatività e passione caratterizzano questa disciplina, la Danza Movimento Terapia, la quale non si sostituisce a nessun percorso psicologico o terapeutico, ma si accompagna eventualmente ad essi per completare un percorso di ricerca di se stessi, di accettazione di sé.
La sua capacità di sostenere il benessere attraverso la manifestazione delle emozioni era già nota in molte popolazioni primitive che attraverso i balli tradizionali mimavano i propri stati affettivi individuali o di gruppo.



Interessantissimi, infatti, i commenti dei partecipanti nella fase conclusiva dei lavori, che hanno trovato accordo unanime sul potere del gruppo nell’abbattere il naturale imbarazzo iniziale e sul permettere ad ognuno di sentirsene parte manifestando le proprie emozioni nella completa libertà di espressione.

Gruppi a Pescara