mercoledì 20 luglio 2016

PSICOLOGIA E CANCRO: L'IMPORTANZA DELLA TERAPIA DI GRUPPO

Il cancro è un qualcosa capace di paralizzare, di annientare, una minaccia alla propria identità ed integrità, al proprio equilibrio emotivo; è un fenomeno in grado di scatenare una catastrofe esistenziale, di stravolgere vite umane, non solo a livello fisico ma anche psicologico, non è possibile infatti separare il corpo dalla sfera psichica.


Nell’immaginario individuale e collettivo il cancro continua ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, angoscia, impotenza, morte sicura (Costantini, Grassi e Biondi, 1998). Dopo una diagnosi di cancro certamente tutto cambia di significato: le relazioni familiari, sociali e professionali, il rapporto con il proprio corpo, i propri valori, i significati attribuiti alla sofferenza e alla morte.
Di fronte a questi inevitabili cambiamenti può generarsi un persistente stato di confusione, un senso di impotenza, di disequilibrio e di solitudine, il tutto spesso aggravato dalle reazioni di parenti ed amici. La popolazione oncologica è soggetta di fatto ad un alto rischio psicopatologico, dal momento che si trova ad affrontare situazioni a dir poco stressanti come la diagnosi, la debilitazione, la mutilazione, le terapie aggressive; senza dimenticare poi lo stato di dipendenza che si può generare, l’allontanamento forzato o non dal proprio ambiente di vita ed infine il rischio di morte.
Il paziente oncologico ha bisogno così di essere curato in tutti gli aspetti della sua patologia; è opportuno prendersi cura dei correlati psicologici che la malattia porta con sé, vanno battute tutte le strade che conducono al miglioramento della qualità di vita dei pazienti, circoscrivendo il rischio di effetti psicopatologici che potrebbero aggravare il quadro clinico. 

La psicologia in questo modo si fa spazio nell’oncologia, è sempre più determinata ad assumere un ruolo rilevante nell’assistere i pazienti affetti da cancro. Le consistenti ricerche incoraggiate in questo ambito indagano oltre alla presenza di disturbi psicologici e alla valutazione della qualità di vita, anche le strategie di informazione, le tecniche di sostegno psicologico, i modelli di supporto sociale e quanto ancora rimane da scoprire. 
Un aiuto psicologico diviene così importante per gestire gli eventi stressanti scaturiti dalla malattia, per contenere i fattori emozionali, le reazioni psicologiche del paziente che potrebbero influenzare negativamente il decorso della malattia fisica stessa. Il bisogno di aiuto psicologico risulta molto elevato dal momento in cui il disagio psichico secondario alle patologie oncologiche investe circa la metà dei pazienti ed un terzo dei familiari. 

In presenza di gravi malattie infatti, diviene molto importante esaminare l’emergere di problemi connessi all’affrontare la malattia ed il suo trattamento, diventa indispensabile aiutare le persone a vivere fronteggiando e gestendo le conseguenze personali, sociali, professionali della patologia; la paura di ricadute o di morte, lo stress familiare, l’isolamento sociale, la riduzione di energie, l’alterazione dell’immagine corporea (Spiegel e Giese-Davis, 2002) non sono certo inoffensivi.
Secondo alcune ricerche lo stress emotivo e la sua gestione potrebbero essere in relazione all’incidenza del cancro ed al suo avanzare gli stati emotivi, soprattutto quelli estremi e cronici potrebbero influenzare gli aspetti fisiologici e le abilità di coping. È importante quindi indagare i possibili effetti fisiologici dello stress sulla progressione della malattia così da sviluppare e valutare nuovi trattamenti. (Spiegel e Giese-Davis, 2002). La diagnosi e il trattamento di cancro scatena un range di emozioni come ansia, paura, tristezza ed angoscia. La gestione di esse rappresenta un problema non marginale per i pazienti e fornisce un’opportunità terapeutica. (Spiegel e Giese-Davis, 2002).

Le terapie psicologiche assistono il paziente oncologico in ogni fase della malattia, le dimensioni psicologiche vengono colte dalla diagnosi alla fine del trattamento. Questi interventi hanno lo scopo di diminuire nel paziente oncologico i sentimenti di alienazione, isolamento, impotenza, il sentirsi trascurato. 

Attraverso il trattamento si cerca di ridurre l’ansia, di chiarire percezioni ed informazioni errate che talvolta possono essere pericolose; si aiuta le persone a sentirsi meno inette e sfiduciate, incoraggiandole ad acquisire maggiore responsabilità e rispondenza ai trattamenti medici. (Fawzy and Fawzy, 1998). Infatti come sottolinea Toscano (2001), le più frequenti espressioni dirette della crisi del malato oncologico sembrano essere: ilrifiuto, come negazione della propria malattia ed ostacolo alla compliance in fase terapeutica; l’ansia, come paura della solitudine, della morte, della perdita di capacità fisiche e possibilità affettive; la depressione come rassegnazione, perdita di motivazioni, emozioni tale da portare ad un declino psicofisico devastante.
Davanti alla crescente consapevolezza di questi problemi associati ad una così grave malattia ed al suo trattamento, si è sviluppata una varietà di interventi supportivi per pazienti e familiari. Tali terapie hanno positivi effetti psicologici e fisiologici. La loro efficacia dipende dalla formazione ed abilità del terapeuta, dal rapporto di quest’ultimo con i pazienti, dalla natura e dal contenuto dell’intervento, dagli obiettivi principali e dagli esiti previsti.
La letteratura in merito si focalizza su quattro principali tipologie di interventi -behavioural therapy (includendo rilassamento, biofeedback e ipnosi); educational therapy (includendo formazione in abilità di coping e fornisce informazioni così da aumentare il senso di controllo del paziente); psychotherapy (includendo counselling); e support groups (aiutano le persone ad esprimere le loro emozioni)- evidenziando nel tempo un incremento della loro efficacia (Fallowfield, 1995).

La psicoterapia non rappresenta una terapia alternativa, ma uno strumento importante per alleviare la sofferenza psicologica dei pazienti e dei familiari determinata dalla malattia (Costantini, Grassi e Biondi, 1998).

Meyer and Mark (1995) hanno classificato i risultati di uno studio su diversi interventi psicosociali in cinque categorie principali:

1. Adattamento emozionale (stato dell’umore, autostima, locus of control, negazione, repressione);
2.   Adattamento funzionale (socializzazione, ritorno al lavoro);
3.   Sintomi legati alla malattia o al trattamento (nausea, dolore);
4.   Esiti medici (risposta del tumore, avanzare della malattia);
5.   Esiti globali (combinazione delle 4 precedenti categorie).

Dopo gli interventi terapeutici proposti sono stati ottenuti significativi effetti per tutte le categorie tranne per gli esiti medici.
Un trattamento che ha riscosso particolare attenzione nella psiconcologia è la terapia di gruppo.

I problemi fisici e psicologici incontrati da pazienti affetti da cancro sono numerosi ed unici; queste persone sembrano trarre un qualche beneficio dai programmi di intervento psicologico, in particolare quelli che impiegano come formato il gruppo.


In oncologia si possono impiegare gruppi psicoterapeutici condotti da professionisti, basati sulla comunicazione verbale, in cui il singolo membro è oggetto del trattamento e il gruppo diviene il principale fattore terapeutico. (Costantini e Grassi, 2004). Secondo alcune prospettive teoriche il gruppo assume le vesti di un microcosmo sociale con significative proprietà terapeutiche in sé; all’interno di esso si maturano esperienze di apprendimento interpersonali che rappresentano un forte meccanismo di cambiamento (Costantini e Grassi, 2002).
A partire dalla seconda metà del Novecento in America sono nati i primi gruppi terapeutici, considerato il successo ottenuto dai gruppi di alcolisti e di malati mentali. Con la creazione di gruppi di pazienti neoplastici si è cercato di prevenire problemi come ansia, depressione, dando informazioni, consigli e supporto emozionale ai membri.
Il gruppo in oncologia, in particolare quello di tipo supportivo, sembra avere maggior efficacia clinica rispetto ad interventi individuali; non si può certo negare che esso migliori le capacità di reazione alla malattia mediante l’osservazione delle modalità di reazione dei membri del gruppo. Quest’ultimo diviene il contesto di condivisione ed analisi degli ostacoli comuni, sviluppando un senso di universalità che allevia la sensazione di solitudine e di impotenza. Questo intervento propone come area focale il significato delle relazioni interpersonali, considerate come forza motrice del gruppo e area focale dell’intervento; contrasta i sentimenti di impotenza e inutilità mediante l’aiutarsi a vicenda tra i membri; migliora la capacità di comunicazione ed espressione emozionale sia nel qui e ora del gruppo che nella realtà esterna (Grassi, Biondi, Costantini, 2003) 

Negli ultimi anni sono stati integrati diversi orientamenti di terapie di gruppo e sottolineando gli elementi di base comuni ai diversi modelli si è giunti a spiegare una maggiore quantità di effetto terapeutico a confronto delle singole tecniche. L’efficacia clinica delle terapie di gruppo con pazienti affetti da cancro di diverso tipo è stata indagata relativamente a “qualità di vita, compliance al trattamento medico, capacità di comunicazione e relazione con medici, modalità di affrontare la malattia e convivere con la malattia, ansia, depressione, dolore e relazioni con familiari” (Costantini e Grassi, 2002). 

In letteratura possono essere evidenziati alcuni diversi modelli di intervento, riconducibili a tre categorie di gruppi terapeutici, che permettono di orientarsi tra i vari filoni in cui è andata sviluppandosi la terapia di gruppo in oncologia: gruppi di informazione-educazione, gruppi con focus cognitivo e coping skill training, gruppi interpersonali di “recupero” o di “supporto” ad orientamento esistenziale (Costantini e Grassi, 2002). Nelle prime due tipologie il conduttore utilizza uno stile deduttivo o interattivo: non viene sfruttato a pieno il fattore “interazione di gruppo”, ma sono previste tecniche utilizzate in genere nel setting individuale.

Nei gruppi di educazione, lo scopo diviene di fornire elementi per la prevenzione e di aumentare la conoscenza della malattia e del trattamento. Si arriva così a migliorare il senso di controllo e la percezione di efficacia personale sia nei pazienti che nei loro familiari, riducendo lo stress successivo alla diagnosi. Sottoforma di lezioni o workshop, le informazioni vengono trasmesse da figure professionali coinvolte nel trattamento. I gruppi psicoeducazionali sono piuttosto brevi e condotti con uno stile deduttivo -didatticamente orientati, con interazione limitata a eventuali domande poste dai partecipanti- e migliorano la conoscenza della malattia e del trattamento, aumentando l’aderenza al regime terapeutico e l’adattamento funzionale. Sono particolarmente indicati a pazienti a rischio genetico o che da poco hanno ricevuto una diagnosi di cancro o ai loro familiari. 

La seconda tipologia -gruppi con focus cognitivo- è rivolta a pazienti già in cura. Questi gruppi sono orientati alle modalità individuali di risposta emotiva e comportamentale; generalmente sono alquanto brevi (12-15 sedute) e strutturati. Lo stile di conduzione viene definito in prevalenza interattivo; un approccio cognitivo comportamentale viene integrato solitamente ad alcuni aspetti affettivi ed esistenziali. Viene stimolata un’aperta espressione e consapevolezza delle proprie reazioni emozionali ed una comunicazione autentica all’interno del gruppo, una formazione specifica per migliorare la capacità di far fronte alla malattia promuovendo comportamenti che favoriscono la salute. In genere siamo davanti ad un approccio strutturato in cui sono proposte parti didattiche ed esperenziali di esercizi o discussioni che migliorano la gestione di alcuni sintomi e favoriscono l’abilità di risposta alla malattia. 

La terza categoria si rivolge a pazienti in fase avanzata della malattia, a quelli in cui è progredita nonostante le cure, insomma a chi desidera una revisione più estesa della propria vita dopo il cancro (Costantini e Grassi, 2002). In genere sono gruppi duraturi (oltre sei mesi), che permettono l’espressione autentica dei sentimenti e delle preoccupazioni personali. Condotti con stile induttivo, da conduttori esperti in questioni di gruppo che promuovono la coesione tra i membri attraverso la gestione della discussione, della rete di relazioni e delle dinamiche di gruppo. 
I contenuti sono proposti dai pazienti, non strutturati, centrati sul processo di gruppo e facilitati dal terapeuta. Questa tipologia migliora l’adattamento emozionale, favorendo supporto, revisione delle priorità, recupero della progettualità esistenziale, l’affrontare il significato personale del vivere e del morire. 

Questi gruppi interpersonali di recupero e di supporto a orientamento esistenziale trovano un fondamento sulla constatazione che le difficoltà incontrate dai pazienti neoplastici sono di natura esistenziale (Serblin e al, 2000). La terapia di gruppo supportivo- espressiva è designata infatti per enfatizzare la regolazione e l’espressione delle emozioni: il suo focus esistenziale concerne l’ansia della morte, l’isolamento, le responsabilità. In tale terapia sembrano così emergere alcuni temi fondamentali: costruzione di legami, espressione dei sentimenti, ricostruzione delle priorità nella vita, l’accordarsi con i dottori, placare il dolore (Spiegel e Classen, 2000).

I terapeuti incoraggiano l’espressione delle emozioni personali e un mutuo supporto tra i membri del gruppo: l’espressione delle emozioni primarie (angoscia, paura, tristezza) è uno specifico pilastro della terapia. La psicoterapia riduce così la soppressione delle emozioni sfociando in un livello di stress inferiore, come emerge da una ricerca su pazienti con metastasi al seno (Classen et al. 2001). 
L’espressione delle emozioni più forti in un setting supportivo permette di accrescere il sostegno sociale, costruendo forti legami tra i membri in modo da sconfiggere l’isolamento caratteristico dei pazienti con cancro. 
Il partecipare ad una terapia di gruppo permette confronti con aspetti difficili di una simile esperienza, un confronto capace di dirigere la crescita delle abilità dei pazienti nel far fronte alle proprie paure di morte, una migliore gestione dei sintomi e ricostruzione delle priorità. Spesso si ricorre all’aiuto di persone sopravvissute che avendo appreso come interfacciarsi alla malattia possono aiutare gli altri a farlo. Una simile terapia incoraggia i partecipanti ad assumere un ruolo attivo nel loro trattamento, a sentirsi liberi di fare domande, ad aprirsi agli altri ed a sé stessi, riducendo il senso di isolamento ed incomprensione. Molti partecipanti instaurano legami profondi di amicizia ritrovandosi anche al di fuori dal gruppo. Insieme hanno condiviso, preso parte alla costruzione di un nuovo senso di sé, di nuove priorità e responsabilità, alla ricostruzione di linee di comunicazione con persone importanti (Serblin e al., 2000). All’interno di questi gruppi i soggetti trovano uno spazio in cui possono affrontare delicate tematiche, che probabilmente al di fuori di quel contesto eviterebbero di trattare, come ad esempio il significato della malattia, “perché io”; in un simile luogo le loro paure ed angosce possono essere esplorate e magari gestite. 

In sintesi lo scopo di un simile gruppo è quello di creare un ambiente dove i pazienti ricevono supporto dagli altri ed esprimere a pieno sentimenti ed idee (Serlin, 2000), si scambino informazioni ed esperienze, si trovi supporto ai problemi personali. Il gruppo assolve la funzione di contenitore di tutte queste angosce (Costantini e Grassi, 2004). 
Un intervento strutturato, formato da aspetti di educazione alla salute, formazione/gestione dei comportamenti, coping (incluse tecniche di problem solving) e gruppi di supporto psicosociale, sembra offrire benefici significativi per pazienti con recente diagnosi o ai primi stadi del trattamento in cui il focus diviene apprendere a vivere con il cancro (Fawzy e Fawzy, 1998). Gli interventi di gruppo devono essere usati come una parte integrante dell’assistenza medica e mai come indipendente. 
Compete al terapeuta prendere decisioni circa la composizione, il formato, le dimensioni dei gruppi (Costantini e Grassi, 2002). Nelle terapie di gruppo non sembrano buoni candidati i pazienti affetti da forte deterioramento cognitivo, patologia grave del carattere, con grave depressione o disturbi psicotici, con aspettativa inferiore ai sei mesi o con problematiche pressanti non condivisibili, e chi rifiuta di partecipare. Sembra auspicabile organizzare gruppi omogenei per fase e sede di malattia: in questo modo viene incoraggiata una maggiore coesione e comprensione, dal momento che si presentano le medesime difficoltà da fronteggiare. Di norma si tende a separare i gruppi in fase avanzata della patologia da quelli in stadio iniziale. 
I gruppi inoltre possono essere aperti o chiusi (iniziano e finiscono insieme) e più o meno numerosi a seconda del tipo di intervento. Diversi gruppi possono rivelarsi utili in distinte fasi della malattia; per quanto riguarda l’area della prevenzione primaria l’uso dei gruppi si è rivelato efficace in persone con un maggior rischio di ammalarsi. Alcuni studi sulle terapie di gruppo con pazienti che hanno già manifestato la malattia hanno evidenziato che il gruppo migliora l’adattamento alla malattia. 
Sembra che i gruppi brevi (12-16 sedute) e strutturati di terapia cognitivo comportamentale migliorano l’adattamento nei pazienti in fase iniziale di malattia. Coloro che si trovano già in fase avanzata della malattia beneficiano di trattamenti di gruppo senza un tempo definito a priori, non strutturati e fondati su un’interazione tra i membri. L’utilità dei singoli gruppi sembra sia significativamente correlata all’obiettivo del terapeuta e alla tecnica e stile di conduzione conseguentemente scelti. 

Un altro tema da affrontare in questo ambito riguarda la formazione del terapeuta. Egli dovrebbe possedere una buona esperienza nella terapia di gruppo, così come nel lavorare con pazienti oncologici, essere abile nello stabilire relazioni significative, gestire le forti reazioni che potrebbero scatenarsi in sé, affrontare la sofferenza (Serlin, 2000). Deve essere capace di mantenere il suo ruolo anche se a volte sarebbe utile varcare i confini, essere emozionalmente presente, possedere “una mente capace di commuoversi e di stupirsi” (Neri, 2002), aiutando il gruppo a fare altrettanto.
Il terapeuta dovrebbe favorire la cultura del gruppo, un insieme di norme proprie che rappresentano il set esplicito ed implicito di ruoli e comportamenti attraverso il quale il gruppo conduce se stesso. La cultura di gruppo contribuisce alle condizioni di sicurezza e di accettazione (Serlin, 2000). Alcune di queste norme includono il sentirsi liberi di interagire spontaneamente, onestamente, accettazione e non valutazione degli altri, stabilire il focus sul problema cancro, informazioni sulle assenze. 
Lo scopo di una simile terapia non è diretto al cambiamento della personalità, ma si rivolge al qui ed ora, cercando di promuovere la manifestazione di quelle emozioni descritte precedentemente. 
Il conduttore dovrà essere capace di facilitare interazioni supportive, sviluppare la comunicazione in ogni direzione possibile, incoraggiando l’espressione di sentimenti e pensieri, evitando che i pazienti si esprimano in modo astratto e impersonale. Può risultare utile inoltre spingere a prender parte ai propri trattamenti, monitorando il loro disagio, facendo attenzione ai sintomi, collaborare con i medici. 
Oltre ai cambiamenti psicologici, alcune ricerche hanno considerato alcune modificazioni biologiche come esiti di interventi di gruppo o addirittura ci sono stati studi che hanno cercato di evidenziarne gli effetti sulla sopravvivenza di pazienti con cancro. Sono state valutate le conseguenze di un intervento di gruppo in termini di qualità di vita, sconforto psicologico, abilità di coping, funzioni immunitarie e tempo di sopravvivenza (Hosaka e al., 2001). 

Spiegel e coll. (1989) hanno riportato che le pazienti con cancro al seno, dopo aver ricevuto un intervento di gruppo, hanno mostrato maggior sopravvivenza rispetto al gruppo di controllo. Anche Fawzy e coll. (1993), in seguito ad una terapia simile, hanno evidenziato una riduzione di sconforto emozionale, miglioramento del funzionamento immunitario e una minor percentuale di ricadute o morti. Secondo Goodwin e colleghi (2001) la psicoterapia di gruppo migliora la qualità di vita di pazienti con cancro, ma non la quantità: si riduce il dolore e lo stress, si vive meglio dunque ma non più a lungo. 

Edelman e coll. (2000) in una ricerca hanno compiuto un excursus degli studi che sono riusciti oppure hanno fallito nel trovare conferma alla relazione tra psicoterapia e tempo di sopravvivenza. 
La letteratura appare così divisa sulla questione dei benefici della terapia sulla sopravvivenza, in ogni modo la terapia di gruppo per pazienti oncologici potrebbe ugualmente essere prescritta per i suoi vantaggi psicologici, per l’effetto positivo sulla qualità di vita, se non necessariamente perché prolunga l’esistenza (Spiegel, 2001). 
In Italia qualcosa si sta muovendo in questo senso, ma siamo ancora agli inizi, molta strada è ancora da percorrere, pochi centri hanno sviluppato programmi di psicoterapia di gruppo. Alcune esperienze significative in questo campo sono state compiute da Grassi sulla psicoterapia supportivo- espressiva e da Costantini sulla psicoterapia di gruppo a tempo limitato (Costantini, 2000). È importante così incoraggiare l’importazione attiva delle terapie di gruppo in Italia, adattandole alla realtà, alla cultura italiana poiché, guardando la letteratura in merito, non è possibile negare che i gruppi proteggano i pazienti da uno stress continuo, forniscano l’opportunità di dare e ricevere supporto, di esprimere i loro pensieri e sentimenti inerenti il significato di come sia vivere con una simile malattia. Considerando gli aspetti psicologici della malattia viene tutelata la salute psicofisica del malato che può sentirsi equipaggiato ad affrontare al meglio la propria malattia. 

Di fronte ad un simile scenario non si può far altro che accogliere l’importante contributo dato dalla terapia di gruppo ai pazienti oncologici in un momento critico della loro vita. La psiconcologia dovrà integrare i trattamenti medici, dovrà mettere a disposizione le proprie risorse, promuovendo una visione globale della patologia, in cui domina un’influenza reciproca tra psiche e soma. 

Bibliografia
·      Classen, C., Butler, L.D., Koopman, C: e al. (2001). Supportive-expressive group therapy and distress in patients with mestastatic breast cancer. Archives General Psychiatry. Vol.58;494-501. 
·  Costantini A., Psicoterapia di gruppo a tempo limitato. Basi teoriche ed efficacia clinica, McGraw-Hill Libri, Milano 2000. 
·   Costantini A., Grassi L., "Gli interventi di gruppo", in Bellani M. Marasso G., Amadori D., Orrù W., Grassi L., Casali P., Bruzzi P., Psiconcologia, Masson, Milano 2002. 
·       Costantini, A., Grassi, L.,Biondi, M. (1998). Psicologia e Tumori. Una guida per reagire. Il Pensiero Scientifico Editore. 
· Danner D.D., Snowdon, D.A., Friesen, W.V (2001).positive emotions in early life and longevity: findings from the nun study. Journal of Personality and Social Psychology. Vol.80;804-813
·     Edelman, S., Craig, A., Kidman, A.D.(2000). Can psychotherapy increase the survival time of cancer patients?. Journal of Psychosomatic Research. Vol.49;149-156. 
·   Fallow,L. (1995). Psychosocial Interventions in cancer. Bmj. Vol311 ; 1316-1317. 
·    Fawzy, I and Fawzy, N.W (1998). Group therapy in the cancer setting. Journal of Psychosomatic Research. Vol.45;191-200. 
·      Fawzy, F., Fawzy, N.W., Huyn, C.S., Elashoff, R.(1993). Effects of an early structured psychiatric intervention, coping and affettive state on recurrence and survival six years later. Arch. General Psychiatry. Vol.50;681-689. 
·     Goodwin, P.J, Leszcz, M., Ennis, M. et al. (2001). The effect of group psychosocial support on survival in metastatic breast cancer. The New England Journal of Medicine. Vol.345; pp1719-1726. 
· Grassi L., Biondi M., Costantini A., Manuale pratico di Psiconcologia, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2003.
·       Hosaka, T., Sugiyama, Y., Hirai, K., Okuyama, T., Sugawara, Y., Nakamura, Y.(2001). Effects of a modified group intervention with early-stage breast cancer patients. General Hospital Psychiatry, Vol.23;145-151.
·   Meyer, T.J, Mark, M.M.(1995). Effects of psychosocial interventions with adult cancer patients: a meta-analysis of randomized experiments. Health Psychology vol.14:101-8. 
·       Neri C., Comunicazione personale, 2002. 
·       Serlin, I.A, et al. (2000). Symposium :support groups for women with breast cancer : traditional and alternative expressive approaches. The arts in Psychotherapy. Vol. 27 (2); pp.123-138.
·   Spiegel, D. (2001) Mind Matters-group therapy and survival in breast cancer. The New England Journal of Medicine. Vol.345, n.24, pp1767-1768.,
·  Spiegel, D., Bloom,J.R, Kraemer, H.C e al.(1989). Effect of psychological treatment on survival of patient with metastatic breast cancer. Lancet, 888-891.
·  Spiegel, D. e Classen, C., (2000). Group therapy for cancer patient: a research-based Handbook of Psychosocial Care, Basic Books, New York. 
·       Spiegel, D., Giese-Davis, J.(2002). Reduced emotional control as a mediator of decresing distress among breast cancer patients in group therapy. International Congress Series. Vol.1241;pp.37-40. 
Sti internet consultati
Ø     www.stpauls.it/fa_oggi/ (Psicoterapia di gruppo in oncologia di Anna Costantini e Luigi Grassi, 2004) 
Ø ww2.unime.it/oncologiamedica/Convegni/Congresso (Terapie psicologiche in oncologia di Lucia Toscano, 2001)

martedì 12 luglio 2016

5 buone abitudini delle persone emotivamente equilibrate

5 buone abitudini delle persone emotivamente equilibrate da prendere come esempio per riuscire vivere in pace con la propria emotività.

Esistono al mondo persone in grado di gestire qualsiasi cosa, in grado affrontare la vita sempre a testa alta nonostante i disagi, nonostante gli stenti. Sono le 
persone emotivamente equilibrate.

Il potere delle emozioni
Le persone emotivamente equilibrate sono coloro che riescono a prendere in mano le proprie emozioni, a gestirle, a non farsi trasportare dalla negatività.
Chi è dotato di equilibrio emotivo vive meglio, in maniera più serena e soddisfacente.
Le emozioni rappresentano la nostra forza, il nostro potere. Nel momento in cui riusciamo a gestire il fiume in piena dell’emotività, potremmo affrontare qualsiasi cosa.

Perché è importante essere equilibrati emotivamente
Gli esperti sostengono che ad ogni emozione corrisponde un certo accumulo energetico. Tale ammasso di energia deve essere in qualche modo liberato.

Come si liberano le emozioni?
Le emozioni per essere liberate devono essere espresse. Solo nel momento in cui un’emozione viene espresse l’individuo riesce a liberare quest’energia accumulata.
Quando tendiamo a reprimerci, a sopprimere le emozioni (che in qualche modo comunque sentiamo ma che non esprimiamo) quest’energia rimane dentro, ci si ritorce contro, provocando un senso di malessere generale che può portare anche a seri problemi, a vere e proprie patologie croniche (problemi cardio-circolatori, calcoli alla cistifellea, cistiti etc).

5 buone abitudini delle persone emotivamente equilibrate
Ecco quali sono le 5 buone abitudini delle persone emotivamente equilibrate.

1)  Sanno mettersi in discussione
Se da un lato, mantenere le proprie posizioni può essere sinonimo di carattere e fermezza dall'altro chi non cambia mai opinione quasi sempre non ha una mente lucida. L’elasticità mentale è importantissima, ammettere di aver sbagliato o cambiare parere su un argomento è sinonimo di intelligenza ed equilibrio.
2)  Accettano se stessi e chi li circonda
Ognuno di noi ha pregi e difetti (fisici e interiori). Le persone equilibrate emotivamente sono coloro che hanno imparato ad accettare se stesse, nel bene e nel male. Oltre ad accettare il proprio io le persone più equilibrate emotivamente hanno imparato ad accettare chi le circonda. Questo non vuol dire che condividono pensieri e modi di fare di chiunque, semplicemente hanno compreso che il mondo è saturo di diversità e loro nutrono profondo rispetto per coloro che pensano o agiscono in maniera differente.
3)  Dedicano del tempo alla propria persona
Nonostante il tran tran della vita quotidiana le persone equilibrate riescono a dedicare dei ritaglio di tempo a se stesse, a ciò che amano fare e che le fa sentire bene. Dobbiamo prenderci cura di noi stessi, sempre!
4)  Esprimono le proprie emozioni
Spesso si hanno difficoltà nel dare ascolto alle proprie emozioni proprio perché tendiamo a non esprimerle! Ridere, piangere, gioire, arrabbiarsi, sono le modalità attraverso le quali le emozioni vengono espresse, reprimendole non faremo altro creare un dis-equilibrio emotivo!
5)  Fanno una vita regolare
  “Mente sana in corpore sano” Difficilmente le persone che fanno una vita troppo irregolare (alimentazione, sport, ore di sonno etc.) riescono a raggiungere una condizione di equilibrio emotivo. Mente e corpo vanno di pari passo. Se il nostro organismo non sta bene, la mente, e con essa le emozioni, ne risente profondamente creando scompensi e problematiche nell'esprimere se stessi e nell'affrontare la vita.

venerdì 8 luglio 2016

La profezia che si auto-avvera

Si chiama self fulfilling prophecy, meglio nota come profezia che si auto-avvera, o che si auto-adempie, insomma, è una sorta di magia fattibile da tutti e attuabile con una serie azioni che portano inevitabilmente a farla avverare.

Come fare? Ecco le istruzioni: provate a pensare a un qualcosa che volente non si verifichi in questo momento, continuate a pensare a questa cosa concentrandovi esclusivamente su essa, poi lasciatevi invadere dall’emozione che possa realmente verificarsi, quando l’ansia sale provate a cercate una soluzione. Ben presto sarete consci che si sta attuando proprio quale comportamento insensato che determina il compiersi della profezia.
La profezia che si auto-avvera è uno dei fenomeni più noti e più studiati in psicologia sociale. Il sociologo Merton ne parlò per la prima volta negli anni ‘70, ed è stata anche riprodotta sperimentalmente a dimostrazione dell’influenza che esercitano le convinzioni sulla costruzione della realtà. Infatti, pensiamo agli effetti dell’ipnosi sulla comunicazione di massa o all’effetto placebo, succede che chi subisce questo comportamento ottiene esattamente quello che vorrebbe si verificasse, a conferma della grande potenza della suggestionabilità umana.
In sostanza, le profezie auto-avveranti incidono significativamente sulla visione che gli individui hanno di loro stessi, del loro modo di apparire con gli altri e con il mondo. Per questo si creano schemi stabili, rigidi, di comportamento che ovviamente si ripeteranno nel tempo confermando la propria visione delle cose.
Ad esempio:
§  La Sig.ra X pensa che prima o poi il suo matrimonio finirà. Quindi si comporta come se fosse già finito, e così lo fa effettivamente finire perché mette in atto una serie di comportamenti che portano alla lite e generano discordia al punto da mettere una reale fine allo stesso.
§  Il Sig. Y si convince di non essere in grado di passare un esame. Studia, ma al momento dell’esame è così agitato che non riesce a rispondere neanche alle domande più facili, e chiaramente non supera l’esame.
Lo stesso meccanismo funziona anche con i gruppi e le collettività. A esempio qualche mese fa i media comunicarono che i titoli di stato non avevano più la stessa rendita di un tempo e la gente si affrettò a vendere quello che aveva. A quel punto non valevano realmente più nulla.
La profezia che si auto-avvera, però, funziona anche in senso positivo. Per esempio, con i sondaggi preelettorali: si dà per vincente o in crescita un partito, questo fatto incoraggia alla preferenza e i voti crescono fino a poter raggiungere la vetta della vittoria.
Funziona anche nella scuola: i docenti utilizzano comportamenti più funzionali nei confronti di studenti promettenti che seguiranno con maggiore enfasi e il risultato sarà riuscire a ottenere migliori rendimenti in seguito a una maggiore autostima sviluppata.
La profezia che si auto-avvera ricorre spesso nel nostro immaginario: dalla leggenda di Edipo al Macbeth di Shakespeare tutte storie dall’esito già annunciato. Ma sono situazioni che si presentano spesso, infatti, a tutti è capitato di percepire una situazione come problematica e di mettere in atto comportamenti che portavano esattamente alla conferma della pericolosità della situazione.

Insomma, le definizioni di una situazione e i comportamenti attuati, fanno parte della situazione stessa che ci sta spaventando e può portare all’epilogo famigerato. Infatti, quelli che a noi sembrano solo conseguenza sono, in realtà, le cause che permettono di far percepire noi stessi come responsabili nel momento in cui continuiamo a evocare i comportamenti dannosi che porteranno alla concretizzazione della paura.

mercoledì 29 giugno 2016

Tempo di Esami, Tempo di Ansia. A proposito dei rimedi!


Arriva l’estate e con essa il tempo degli esami di maturità, di quelli all'università e, più in là, i famigerati test di ingresso per le facoltà a numero chiuso. Fioccano gli articoli sull'ansia da esame, ci raccontano quanti studenti ne soffrono, ci spiegano cosa fare per gestirla, attutirla, eliminarla, offrono consigli a genitori preoccupati.
La ricerca google per il termine “ansia da esame” produce i seguenti titoli
  1. Stress e Ansia da esame: strategie di controllo
  2. Ansia da esame: se la riconosci la superi
  3. Ansia da esame: 10 cose da sapere per tenerla a bada
  4. Ecco come battere l’ansia da esame
In tutta la prima pagina di ricerca google non c’è nessun articolo o pagina web che punti a chiarire tre aspetti fondamentali dell’ansia in generale e dell’ansia da esame in particolare. Concetti assolutamente basilari per uno psicologo!

#1 Provare ansia è normale!

E’ assolutamente normale provare ansia, irrequietezza e agitazione nei giorni o settimane precedenti ad una valutazione riguardante la nostra prestazione o preparazione.
Già Freud, nel lontano 1925, aveva sottolineato che le reazioni di angoscia (in psicoanalisi si parla di angoscia e non di ansia) non sono tutte “nevrotiche” e che se ne riconoscono tante come normali.
Egli aveva quindi distinto l’angoscia reale, causata da un pericolo reale che riusciamo ad identificare (come un esame appunto!), dall'angoscia nevrotica attivata invece da un pericolo del quale non siamo consapevoli e che affonda le sue radici nel nostro mondo interno.
Ma al di là dell’identificazione delle origini dell’angoscia e dell’ansia, c’è un’altra motivazione che mi spinge a considerare questo scritto di Freud come fondamentale per l’argomento di cui ti sto parlando.
In esso Freud descrive il passaggio da “angoscia automatica” come reazione contestuale ad una situazione di pericolo ad “angoscia segnale” cioè quello stato emotivo accompagnato dalla classica attivazione psicofisica, che emerge proprio come prefigurazione del pericolo, che lo pre-annuncia in qualche modo, mettendoci in condizione di affrontarlo:
(…) non è possibile trovare un’altra funzione per l’angoscia che non sia quella di un segnale inteso a evitare la situazione di pericolo” (Freud; 1925)
L’aspetto fondamentale della teorizzazione freudiana sta nell'aver sottolineato come questa trasformazione (dall'angoscia automatica a quella segnale) sia “un primo grande progresso dell’auto-conservazione” (ibidem).

Perché gli esami rappresentano un pericolo tale da attivare l’ansia?

Gli esami, siano essi di maturità o universitari, costituiscono una situazione di pericolo nella misura in cui dal loro fallimento (totale o parziale) o successo (anch'esso totale o parziale) ne deriva la soddisfazione o insoddisfazione di bisogni profondi (es. bisogno di auto-affermazione, di rivalsa, di riconoscimento del proprio valore e capacità più che della propria preparazione), nonché la conferma, la disconferma o la maturazione della propria rappresentazione di sé e dei processi identitari.
Si verifica quindi la coincidenza tra un pericolo esterno e reale (l’esame e l’espressione di un giudizio circa la preparazione) ed un pericolo interno carico di significati che restano per lo più sconosciuti allo studente stesso e che non devono necessariamente essere portati alla consapevolezza.
Il pericolo non è dunque relativo alla sopravvivenza fisica ma a ciò che l’esito dell’esame potrebbe comportare, in positivo o in negativo, per la persona che la vive.

#2 L’ansia da esame non deve essere cancellata!

Tornando al caso specifico dell’ansia segnale posso quindi affermare che non solo è normalissimo provare ansia di fronte ad una prova d’esame, ma è soprattutto fondamentale ai fini di una buona preparazione.
Anticipare il momento esatto della valutazione e dell’esame, il timore di fare scena muta o che ci venga posta una domanda proprio su quella minuscola parte del programma che invece stiamo sottovalutando, ci spinge ad approfondire lo studio, a rimandare a dopo il momento dello svago, così attraente mentre si sgobba sui libri.
Si tratta quindi di normale preoccupazione, della salutare e adattiva ansia segnale, che sempre si attiva di fronte ad un pericolo reale o temuto proprio per metterci in grado di affrontarlo.
Certo l’ansia è fastidiosa e a nessuno piace provarla. Tuttavia essa è fondamentale non solo ai fini del superamento di un problema presente:
(…) Preoccuparsi di ciò che accadrà in futuro può portare a un pensiero altamente creativo. Le soluzioni dei problemi sono il prodotto di una preoccupazione. A un atteggiamento preoccupato possono essere associati salutari dubbi su se stessi. Se l’ansia è vista come un problema che deve essere cancellato (…) la psiche umana potrebbe soffrire una perdita sostanziale” (G. O Gabbard, 2002 p. 246).

Questa citazione mi porta direttamente a parlarti del 3° aspetto fondamentale dell’ansia in generale e dell’ansia da esame in particolare:

#3 La capacità di tollerare l’ansia

Se l’ansia è un affetto fondamentale per la psiche umana, per la tua evoluzione, il tuo adattamento e la tua creatività va da sé che l’unica cosa che dobbiamo assolutamente fare è tollerarla, cioè metterci nella condizione di provare ansia senza il bisogno impellente di eliminarla.
Questo della tolleranza dell’ansia è in realtà parte di un discorso più generale e complesso riguardante la regolazione degli stati affettivi e delle emozioni, esito di un percorso di sviluppo che ha origine fin dalla nascita (se non prima) e che impegna la mente umana probabilmente per tutta la vita.
Se quindi il processo evolutivo e di sviluppo dell’autoregolazione emotiva ha origini così lontane, complesse e attraversa l’intero corso dell’esistenza, come possiamo pensare di risolverlo in quattro e quattr'otto seguendo delle regole e suggerimenti per gestire l’ansia trovati qua e là per il web?
Qualcuno potrebbe obiettare che tutta questa mole di informazioni sull'ansia in generale e sull'ansia da esame in particolare, viene prodotta e pubblicata per tutti quei casi in cui il quantitativo di ansia è tale da mandare in blocco lo studente oppure quando il problema riguarda proprio la capacità di tollerarla ed auto-regolarla.
L’ansia eccessiva e disorganizzante, il blocco nello studio, l’impossibilità nel presentarsi ad un esame o a superarlo con il risultato sperato, così come le difficoltà nel tollerare l’ansia segnale, sono aspetti troppo importanti, seri e profondi per essere liquidati e superati semplicemente seguendo i consigli e le regole d’oro che si trovano on-line!

PER CONCLUDERE

  1. L’ansia è un stato emotivo-affettivo fastidioso che nessuno mai vorrebbe provare ma che è necessario per l’adattamento, l’evoluzione e la propria creatività;
  2. Sforzati di trovare la tua personale modalità di affrontare, gestire e regolare l’ansia da esame anche attraverso la richiesta di aiuto a persone che ti sono vicine (familiari stretti, parenti, amici). Questo lavoro, che adesso magari cerchi di evitare ricorrendo ai rimedi racimolati qua e là, ti tornerà utile per affrontare in futuro altre difficoltà.
  3. Rivolgiti all'aiuto specialistico di uno psicologo se:
  • senti che l’ansia è eccessiva rispetto alla sfida che devi affrontare
  • ti accorgi che l’ansia ti impedisce di studiare e concentrarti, presentarti all'esame o sostenere la situazione di esame
  • senti che l’esito del tuo esame ha messo in crisi profondamente te stesso e i tuoi progetti futuri.
Buona Salute!

giovedì 23 giugno 2016

IL MARTEDÌ DELLA MENTE

Dedichiamo spesso molto tempo alla cura del nostro corpo, ma non dobbiamo dimenticarci che anche la mente ha bisogno dei suoi spazi; nasce il giorno dedicato alla cura della tua mente.
Il martedì della mente consiste in laboratori attraverso i quali è possibile apprendere le tecniche di gestioni di sentimenti che spesso influenzano la nostra vita e non ci permettono di condurre una vita serena.
 


 E se non fosse solo rabbia?


Durante la giornata capita di arrabbiarsi.
Spesso si tende ad ignorare questo sentimento apparentemente negativo, facendo sì che questi accadimenti si accumulino fino al punto di esplodere in comportamenti poco funzionali alle relazioni con gli altri.
 
Immaginate, quindi, di poter riconoscere la vostra rabbia prima che questa si accumuli ed esploda.
 
Immaginate di trovare un modo per gestirla senza far del male agli altri, ma soprattutto a voi stessi.

 

Il laboratorio pratico si terrà martedì 5 Luglio dalle ore 19:00 alle ore 20:30 presso il Centro di Psicoterapia Familiare in via Nicola Fabrizi 60.

Il costo del laboratorio è di 10€.


Per info e prenotazioni contattare il numero 3913519017 oppure gruppiapescara@gmail.com

IL TIFO DA STADIO? Te lo spiega la psicologia sociale



Quante volte vi sarà capitato, mentre siete allo stadio a vedere il vostro sport preferito, di considerare il vostro avversario non solo un rivale, ma anche una squadra/atleta dotata/o di caratteristiche negative fra cui incapacità, scorrettezza, antisportività e forse persino sgradevolezza anche solo nei colori delle maglie e dei volti? È quasi sempre così, il rivale, “l’altro”, spesso possiede caratteristiche indesiderabili ai nostri occhi...il tifo, o meglio, gli effetti generati dal tifo, causano una serie di bluff nella nostra mente a cui spesso e volentieri cadiamo a piedi pari... Non si tratta tanto del fenomeno della violenza negli stadi, quanto piuttosto delle sensazioni che può avere un qualsiasi tifoso occasionale.

Il tifo è forse l’elemento fondamentale dell’esistenza di uno sport: uno sport che non ha un certo seguito difficilmente riesce ad emergere e sopravvivere. In Italia è il calcio a farla da padrone, seguito da pallacanestro, pallavolo e motorsport. Il tifo però, dicevamo, può causare effetti collaterali anche al più classico “buon padre di famiglia”, al di là di quale sport si tratti e della categoria in cui viene praticato (ad essere del tutto onesti, il “buon padre di famiglia” spesso si distingue in negativo proprio nell'habitat delle categorie giovanili. Perché persone apparentemente normali si lasciano a volte andare agli istinti più aggressivi?

Una risposta, a mio parere decisamente valida, ce la fornisce la Psicologia Sociale: si tratta di una particolare branca della Psicologia che si occupa dello studio dei processi sociali e cognitivi, del modo in cui persone che entrano in relazione fra di loro si percepiscono e si influenzano. L’obiettivo che si pone, attraverso un approccio scientifico, è quello di cercare di spiegare i fenomeni sociali, le reazioni e le percezioni di individui in interazione, spesso all’interno di contesti usuali e ripetibili.

Cosa ci dice la Psicologia Sociale riguardo al tifo? La risposta è spiazzante: innumerevoli processi avvengono nel nostro cervello, in maniera pressoché automatica, al punto che i più integralisti potrebbero anche pensare che in determinati contesti siamo solo delle marionette guidate da pre-giudizi (intesi come pre-conoscenze di un determinato fatto, condizione, o situazione generale).

Vediamo alcuni di questi fenomeni, prendendo ad esempio la classica partita di calcio:

La premessa principale è l’Euristica: il nostro cervello, quando è in affanno, si basa su modelli denominati “euristiche” che gli permettono di trovare una pronta risposta (una risposta che l’individuo valuta “sufficiente”) nei casi in cui non vi siano tutte le risorse cognitive a disposizione. E’ il cosiddetto processo automatico (o elaborazione superficiale). Una volta compresa l’esistenza di queste euristiche è più facile capire anche cosa avviene durante un partita. Il coinvolgimento emotivo e cognitivo del tifoso lo porta ad avere minori risorse del solito pertanto la possibilità che si attuino delle euristiche è molto elevata. Le principali che si possono verificare riguardano quelle relative alle relazioni fra i gruppi (2 squadre in campo più 2 “squadre” di tifosi sugli spalti) fra cui:

– Categorizzazione: attribuiamo le cause di un comportamento di una persona al fatto che faccia parte di quella specifica categoria. “Quella è la squadra dove rubano i campionati”, “quella è la squadra dei tuffatori”, etc. Se un giocatore è scorretto allora vuol dire che tutta la squadra e i suoi tifosi sono scorretti (diventa perciò uno stereotipo). Mentre per quanto riguarda il proprio gruppo la valutazione è ben diversa, infatti consideriamo una mosca bianca il “compagno” che commette uno sbaglio.

– Omogeneità:“loro”, gli altri, ci sembrano tutti uguali, tendenzialmente “brutti” e con minor valore rispetto a “noi”.

–Contagio emotivo:le emozioni del gruppo si insinuano nei singoli individui. Se io sono di buonumore, ma il gruppo è estremamente aggressivo, tenderò ad allinearmi all'atteggiamento generale, pena la perdita dei miei benefici dell’essere nel gruppo (sia ben chiaro, il tutto in maniera inconscia).

–Condizionamento classico nei gruppi:simile al punto precedente, in questo caso si tratta delle emozioni esperite nell'interazione con altri gruppi (ad esempio la curva avversaria). Le emozioni vissute, con il tempo tendono a diventare intrinseche nel gruppo stesso (se io ho dei rapporti negativi con i tifosi dei “pinguini blu”, con il tempo tenderò a considerare le emozioni negative che io vivo, come invece elemento caratterizzante dei “pinguini blu”, comunemente come avviene nel meccanismo di proiezione.

Identità e difesa del gruppo: quando non c’è un premio in palio, due gruppi nutrono una leggera antipatia di fondo (si tratta del loop per cui, chi fa parte del mio gruppo è “sicuramente” più simpatico di un esterno poiché… appartiene al mio gruppo!). Quando invece il gruppo esterno rappresenta una minaccia (nel caso sportivo una nostra sconfitta) ecco allora manifestarsi sentimenti più intensi, che nei casi peggiori possono portare anche a forti discriminazioni.

I punti sopra elencati sono solo una piccola parte delle regole che ci guidano ogni volta che siamo lì a tifare per i nostri colori. L’idea di una “marionetta guidata da euristiche” è sicuramente molto forte, ma sapere e comprendere che siamo spesso in balìa di fenomeni che sono stati studiati e hanno un nome, quando fino ad oggi credevamo realmente che i “pinguini blu” fossero fondamentalmente malvagi, deve perlomeno far riflettere. In effetti è solo l’elaborazione sistematica, l’unico rimedio a queste forme di pensiero “primordiale” abbinata alla conoscenza approfondita dell’avversario in quanto individuo. Un esempio di ciò ce lo dà il rugby con il terzo tempo e le sue classiche cene di fine partita con l’avversario. La sensibilizzazione al tifo non è nuova in Italia, in particolare è attivo da qualche anno il progetto “io tifo positivo” ideato dal compianto giornalista Candido Cannavò, quand'era direttore della Gazzetta dello Sport, che ha lo scopo di promuovere condividere una cultura sportiva positiva all'interno degli stadi.

Per meglio comprendere quali potrebbero essere le misure anti violenza diamo uno sguardo a cosa succede negli altri Stati europei. Gran Bretagna, Germania, Francia, ma anche Spagna e Belgio hanno regolamentato la materia con impostazioni diverse, ma con una comune impronta preventiva e repressiva.

La Gran Bretagna ha puntato molto sulla responsabilizzazione delle società tanto che ha affidato loro la sorveglianza all’interno degli impianti. Stewards privati pagati direttamente dai club sono in collegamento via radio con la polizia che rimane presente solo all’esterno degli stadi. Oggi le forze dell’ordine inglesi hanno la facoltà di arrestare e far processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale.

Il modello anglosassone è stato in parte recepito dalla Germania che, negli ultimi anni, ha ristrutturato gli impianti sportivi togliendo le barriere tra campo e tribune. Oltre alle telecamere esistono poi delle apposite sale con monitor controllati dalla polizia. Anche in questo caso si ricorre al supporto degli stewards pagati dai club.In Germania non esiste una legge nazionale in materia di sicurezza degli stadi e il Governo ha optato per un progetto volto a incoraggiare l’autodisciplina e l’autoresponsabilità dei tifosi stessi. Sta alle autorità regionali richiedere la presenza della polizia per quelle partite ritenute a rischio

Anche in Spagna esiste la figura dello steward, mentre spetta alla Commissione Antiviolenza statale imporre ai club il pagamento di forze di polizia aggiuntive in caso di partite potenzialmente pericolose. Negli stadi spagnoli è vietato introdurre bandiere e aste e i tifosi più violenti possono essere espulsi dagli stadi per tre, sei o anche più mesi.

La Francia invece nel 1993 si è dotata di una legge contro la violenza nello sport e dal 2003 ha sviluppato regole più rigide.

Per quanto riguarda il Belgio è stato invece avviato il progetto ‘Football Fan Card’, una sorta di tessera del tifoso obbligatoria per l’acquisto di un biglietto, dotata di microchip con tutti i dati utili per l’identificazione del tifoso.
 

FONTI: http://www.lecconotizie.com/rubriche/psicologia-dello-sport/il-tifo-da-stadio-te-lo-spiega-la-psicologia-sociale-90470/

http://www.eunews.it/2014/05/06/violenza-negli-stadi-ecco-come-la-combattono-negli-altri-paesi-europei/15317