venerdì 8 luglio 2016

La profezia che si auto-avvera

Si chiama self fulfilling prophecy, meglio nota come profezia che si auto-avvera, o che si auto-adempie, insomma, è una sorta di magia fattibile da tutti e attuabile con una serie azioni che portano inevitabilmente a farla avverare.

Come fare? Ecco le istruzioni: provate a pensare a un qualcosa che volente non si verifichi in questo momento, continuate a pensare a questa cosa concentrandovi esclusivamente su essa, poi lasciatevi invadere dall’emozione che possa realmente verificarsi, quando l’ansia sale provate a cercate una soluzione. Ben presto sarete consci che si sta attuando proprio quale comportamento insensato che determina il compiersi della profezia.
La profezia che si auto-avvera è uno dei fenomeni più noti e più studiati in psicologia sociale. Il sociologo Merton ne parlò per la prima volta negli anni ‘70, ed è stata anche riprodotta sperimentalmente a dimostrazione dell’influenza che esercitano le convinzioni sulla costruzione della realtà. Infatti, pensiamo agli effetti dell’ipnosi sulla comunicazione di massa o all’effetto placebo, succede che chi subisce questo comportamento ottiene esattamente quello che vorrebbe si verificasse, a conferma della grande potenza della suggestionabilità umana.
In sostanza, le profezie auto-avveranti incidono significativamente sulla visione che gli individui hanno di loro stessi, del loro modo di apparire con gli altri e con il mondo. Per questo si creano schemi stabili, rigidi, di comportamento che ovviamente si ripeteranno nel tempo confermando la propria visione delle cose.
Ad esempio:
§  La Sig.ra X pensa che prima o poi il suo matrimonio finirà. Quindi si comporta come se fosse già finito, e così lo fa effettivamente finire perché mette in atto una serie di comportamenti che portano alla lite e generano discordia al punto da mettere una reale fine allo stesso.
§  Il Sig. Y si convince di non essere in grado di passare un esame. Studia, ma al momento dell’esame è così agitato che non riesce a rispondere neanche alle domande più facili, e chiaramente non supera l’esame.
Lo stesso meccanismo funziona anche con i gruppi e le collettività. A esempio qualche mese fa i media comunicarono che i titoli di stato non avevano più la stessa rendita di un tempo e la gente si affrettò a vendere quello che aveva. A quel punto non valevano realmente più nulla.
La profezia che si auto-avvera, però, funziona anche in senso positivo. Per esempio, con i sondaggi preelettorali: si dà per vincente o in crescita un partito, questo fatto incoraggia alla preferenza e i voti crescono fino a poter raggiungere la vetta della vittoria.
Funziona anche nella scuola: i docenti utilizzano comportamenti più funzionali nei confronti di studenti promettenti che seguiranno con maggiore enfasi e il risultato sarà riuscire a ottenere migliori rendimenti in seguito a una maggiore autostima sviluppata.
La profezia che si auto-avvera ricorre spesso nel nostro immaginario: dalla leggenda di Edipo al Macbeth di Shakespeare tutte storie dall’esito già annunciato. Ma sono situazioni che si presentano spesso, infatti, a tutti è capitato di percepire una situazione come problematica e di mettere in atto comportamenti che portavano esattamente alla conferma della pericolosità della situazione.

Insomma, le definizioni di una situazione e i comportamenti attuati, fanno parte della situazione stessa che ci sta spaventando e può portare all’epilogo famigerato. Infatti, quelli che a noi sembrano solo conseguenza sono, in realtà, le cause che permettono di far percepire noi stessi come responsabili nel momento in cui continuiamo a evocare i comportamenti dannosi che porteranno alla concretizzazione della paura.

mercoledì 29 giugno 2016

Tempo di Esami, Tempo di Ansia. A proposito dei rimedi!


Arriva l’estate e con essa il tempo degli esami di maturità, di quelli all'università e, più in là, i famigerati test di ingresso per le facoltà a numero chiuso. Fioccano gli articoli sull'ansia da esame, ci raccontano quanti studenti ne soffrono, ci spiegano cosa fare per gestirla, attutirla, eliminarla, offrono consigli a genitori preoccupati.
La ricerca google per il termine “ansia da esame” produce i seguenti titoli
  1. Stress e Ansia da esame: strategie di controllo
  2. Ansia da esame: se la riconosci la superi
  3. Ansia da esame: 10 cose da sapere per tenerla a bada
  4. Ecco come battere l’ansia da esame
In tutta la prima pagina di ricerca google non c’è nessun articolo o pagina web che punti a chiarire tre aspetti fondamentali dell’ansia in generale e dell’ansia da esame in particolare. Concetti assolutamente basilari per uno psicologo!

#1 Provare ansia è normale!

E’ assolutamente normale provare ansia, irrequietezza e agitazione nei giorni o settimane precedenti ad una valutazione riguardante la nostra prestazione o preparazione.
Già Freud, nel lontano 1925, aveva sottolineato che le reazioni di angoscia (in psicoanalisi si parla di angoscia e non di ansia) non sono tutte “nevrotiche” e che se ne riconoscono tante come normali.
Egli aveva quindi distinto l’angoscia reale, causata da un pericolo reale che riusciamo ad identificare (come un esame appunto!), dall'angoscia nevrotica attivata invece da un pericolo del quale non siamo consapevoli e che affonda le sue radici nel nostro mondo interno.
Ma al di là dell’identificazione delle origini dell’angoscia e dell’ansia, c’è un’altra motivazione che mi spinge a considerare questo scritto di Freud come fondamentale per l’argomento di cui ti sto parlando.
In esso Freud descrive il passaggio da “angoscia automatica” come reazione contestuale ad una situazione di pericolo ad “angoscia segnale” cioè quello stato emotivo accompagnato dalla classica attivazione psicofisica, che emerge proprio come prefigurazione del pericolo, che lo pre-annuncia in qualche modo, mettendoci in condizione di affrontarlo:
(…) non è possibile trovare un’altra funzione per l’angoscia che non sia quella di un segnale inteso a evitare la situazione di pericolo” (Freud; 1925)
L’aspetto fondamentale della teorizzazione freudiana sta nell'aver sottolineato come questa trasformazione (dall'angoscia automatica a quella segnale) sia “un primo grande progresso dell’auto-conservazione” (ibidem).

Perché gli esami rappresentano un pericolo tale da attivare l’ansia?

Gli esami, siano essi di maturità o universitari, costituiscono una situazione di pericolo nella misura in cui dal loro fallimento (totale o parziale) o successo (anch'esso totale o parziale) ne deriva la soddisfazione o insoddisfazione di bisogni profondi (es. bisogno di auto-affermazione, di rivalsa, di riconoscimento del proprio valore e capacità più che della propria preparazione), nonché la conferma, la disconferma o la maturazione della propria rappresentazione di sé e dei processi identitari.
Si verifica quindi la coincidenza tra un pericolo esterno e reale (l’esame e l’espressione di un giudizio circa la preparazione) ed un pericolo interno carico di significati che restano per lo più sconosciuti allo studente stesso e che non devono necessariamente essere portati alla consapevolezza.
Il pericolo non è dunque relativo alla sopravvivenza fisica ma a ciò che l’esito dell’esame potrebbe comportare, in positivo o in negativo, per la persona che la vive.

#2 L’ansia da esame non deve essere cancellata!

Tornando al caso specifico dell’ansia segnale posso quindi affermare che non solo è normalissimo provare ansia di fronte ad una prova d’esame, ma è soprattutto fondamentale ai fini di una buona preparazione.
Anticipare il momento esatto della valutazione e dell’esame, il timore di fare scena muta o che ci venga posta una domanda proprio su quella minuscola parte del programma che invece stiamo sottovalutando, ci spinge ad approfondire lo studio, a rimandare a dopo il momento dello svago, così attraente mentre si sgobba sui libri.
Si tratta quindi di normale preoccupazione, della salutare e adattiva ansia segnale, che sempre si attiva di fronte ad un pericolo reale o temuto proprio per metterci in grado di affrontarlo.
Certo l’ansia è fastidiosa e a nessuno piace provarla. Tuttavia essa è fondamentale non solo ai fini del superamento di un problema presente:
(…) Preoccuparsi di ciò che accadrà in futuro può portare a un pensiero altamente creativo. Le soluzioni dei problemi sono il prodotto di una preoccupazione. A un atteggiamento preoccupato possono essere associati salutari dubbi su se stessi. Se l’ansia è vista come un problema che deve essere cancellato (…) la psiche umana potrebbe soffrire una perdita sostanziale” (G. O Gabbard, 2002 p. 246).

Questa citazione mi porta direttamente a parlarti del 3° aspetto fondamentale dell’ansia in generale e dell’ansia da esame in particolare:

#3 La capacità di tollerare l’ansia

Se l’ansia è un affetto fondamentale per la psiche umana, per la tua evoluzione, il tuo adattamento e la tua creatività va da sé che l’unica cosa che dobbiamo assolutamente fare è tollerarla, cioè metterci nella condizione di provare ansia senza il bisogno impellente di eliminarla.
Questo della tolleranza dell’ansia è in realtà parte di un discorso più generale e complesso riguardante la regolazione degli stati affettivi e delle emozioni, esito di un percorso di sviluppo che ha origine fin dalla nascita (se non prima) e che impegna la mente umana probabilmente per tutta la vita.
Se quindi il processo evolutivo e di sviluppo dell’autoregolazione emotiva ha origini così lontane, complesse e attraversa l’intero corso dell’esistenza, come possiamo pensare di risolverlo in quattro e quattr'otto seguendo delle regole e suggerimenti per gestire l’ansia trovati qua e là per il web?
Qualcuno potrebbe obiettare che tutta questa mole di informazioni sull'ansia in generale e sull'ansia da esame in particolare, viene prodotta e pubblicata per tutti quei casi in cui il quantitativo di ansia è tale da mandare in blocco lo studente oppure quando il problema riguarda proprio la capacità di tollerarla ed auto-regolarla.
L’ansia eccessiva e disorganizzante, il blocco nello studio, l’impossibilità nel presentarsi ad un esame o a superarlo con il risultato sperato, così come le difficoltà nel tollerare l’ansia segnale, sono aspetti troppo importanti, seri e profondi per essere liquidati e superati semplicemente seguendo i consigli e le regole d’oro che si trovano on-line!

PER CONCLUDERE

  1. L’ansia è un stato emotivo-affettivo fastidioso che nessuno mai vorrebbe provare ma che è necessario per l’adattamento, l’evoluzione e la propria creatività;
  2. Sforzati di trovare la tua personale modalità di affrontare, gestire e regolare l’ansia da esame anche attraverso la richiesta di aiuto a persone che ti sono vicine (familiari stretti, parenti, amici). Questo lavoro, che adesso magari cerchi di evitare ricorrendo ai rimedi racimolati qua e là, ti tornerà utile per affrontare in futuro altre difficoltà.
  3. Rivolgiti all'aiuto specialistico di uno psicologo se:
  • senti che l’ansia è eccessiva rispetto alla sfida che devi affrontare
  • ti accorgi che l’ansia ti impedisce di studiare e concentrarti, presentarti all'esame o sostenere la situazione di esame
  • senti che l’esito del tuo esame ha messo in crisi profondamente te stesso e i tuoi progetti futuri.
Buona Salute!

giovedì 23 giugno 2016

IL MARTEDÌ DELLA MENTE

Dedichiamo spesso molto tempo alla cura del nostro corpo, ma non dobbiamo dimenticarci che anche la mente ha bisogno dei suoi spazi; nasce il giorno dedicato alla cura della tua mente.
Il martedì della mente consiste in laboratori attraverso i quali è possibile apprendere le tecniche di gestioni di sentimenti che spesso influenzano la nostra vita e non ci permettono di condurre una vita serena.
 


 E se non fosse solo rabbia?


Durante la giornata capita di arrabbiarsi.
Spesso si tende ad ignorare questo sentimento apparentemente negativo, facendo sì che questi accadimenti si accumulino fino al punto di esplodere in comportamenti poco funzionali alle relazioni con gli altri.
 
Immaginate, quindi, di poter riconoscere la vostra rabbia prima che questa si accumuli ed esploda.
 
Immaginate di trovare un modo per gestirla senza far del male agli altri, ma soprattutto a voi stessi.

 

Il laboratorio pratico si terrà martedì 5 Luglio dalle ore 19:00 alle ore 20:30 presso il Centro di Psicoterapia Familiare in via Nicola Fabrizi 60.

Il costo del laboratorio è di 10€.


Per info e prenotazioni contattare il numero 3913519017 oppure gruppiapescara@gmail.com

IL TIFO DA STADIO? Te lo spiega la psicologia sociale



Quante volte vi sarà capitato, mentre siete allo stadio a vedere il vostro sport preferito, di considerare il vostro avversario non solo un rivale, ma anche una squadra/atleta dotata/o di caratteristiche negative fra cui incapacità, scorrettezza, antisportività e forse persino sgradevolezza anche solo nei colori delle maglie e dei volti? È quasi sempre così, il rivale, “l’altro”, spesso possiede caratteristiche indesiderabili ai nostri occhi...il tifo, o meglio, gli effetti generati dal tifo, causano una serie di bluff nella nostra mente a cui spesso e volentieri cadiamo a piedi pari... Non si tratta tanto del fenomeno della violenza negli stadi, quanto piuttosto delle sensazioni che può avere un qualsiasi tifoso occasionale.

Il tifo è forse l’elemento fondamentale dell’esistenza di uno sport: uno sport che non ha un certo seguito difficilmente riesce ad emergere e sopravvivere. In Italia è il calcio a farla da padrone, seguito da pallacanestro, pallavolo e motorsport. Il tifo però, dicevamo, può causare effetti collaterali anche al più classico “buon padre di famiglia”, al di là di quale sport si tratti e della categoria in cui viene praticato (ad essere del tutto onesti, il “buon padre di famiglia” spesso si distingue in negativo proprio nell'habitat delle categorie giovanili. Perché persone apparentemente normali si lasciano a volte andare agli istinti più aggressivi?

Una risposta, a mio parere decisamente valida, ce la fornisce la Psicologia Sociale: si tratta di una particolare branca della Psicologia che si occupa dello studio dei processi sociali e cognitivi, del modo in cui persone che entrano in relazione fra di loro si percepiscono e si influenzano. L’obiettivo che si pone, attraverso un approccio scientifico, è quello di cercare di spiegare i fenomeni sociali, le reazioni e le percezioni di individui in interazione, spesso all’interno di contesti usuali e ripetibili.

Cosa ci dice la Psicologia Sociale riguardo al tifo? La risposta è spiazzante: innumerevoli processi avvengono nel nostro cervello, in maniera pressoché automatica, al punto che i più integralisti potrebbero anche pensare che in determinati contesti siamo solo delle marionette guidate da pre-giudizi (intesi come pre-conoscenze di un determinato fatto, condizione, o situazione generale).

Vediamo alcuni di questi fenomeni, prendendo ad esempio la classica partita di calcio:

La premessa principale è l’Euristica: il nostro cervello, quando è in affanno, si basa su modelli denominati “euristiche” che gli permettono di trovare una pronta risposta (una risposta che l’individuo valuta “sufficiente”) nei casi in cui non vi siano tutte le risorse cognitive a disposizione. E’ il cosiddetto processo automatico (o elaborazione superficiale). Una volta compresa l’esistenza di queste euristiche è più facile capire anche cosa avviene durante un partita. Il coinvolgimento emotivo e cognitivo del tifoso lo porta ad avere minori risorse del solito pertanto la possibilità che si attuino delle euristiche è molto elevata. Le principali che si possono verificare riguardano quelle relative alle relazioni fra i gruppi (2 squadre in campo più 2 “squadre” di tifosi sugli spalti) fra cui:

– Categorizzazione: attribuiamo le cause di un comportamento di una persona al fatto che faccia parte di quella specifica categoria. “Quella è la squadra dove rubano i campionati”, “quella è la squadra dei tuffatori”, etc. Se un giocatore è scorretto allora vuol dire che tutta la squadra e i suoi tifosi sono scorretti (diventa perciò uno stereotipo). Mentre per quanto riguarda il proprio gruppo la valutazione è ben diversa, infatti consideriamo una mosca bianca il “compagno” che commette uno sbaglio.

– Omogeneità:“loro”, gli altri, ci sembrano tutti uguali, tendenzialmente “brutti” e con minor valore rispetto a “noi”.

–Contagio emotivo:le emozioni del gruppo si insinuano nei singoli individui. Se io sono di buonumore, ma il gruppo è estremamente aggressivo, tenderò ad allinearmi all'atteggiamento generale, pena la perdita dei miei benefici dell’essere nel gruppo (sia ben chiaro, il tutto in maniera inconscia).

–Condizionamento classico nei gruppi:simile al punto precedente, in questo caso si tratta delle emozioni esperite nell'interazione con altri gruppi (ad esempio la curva avversaria). Le emozioni vissute, con il tempo tendono a diventare intrinseche nel gruppo stesso (se io ho dei rapporti negativi con i tifosi dei “pinguini blu”, con il tempo tenderò a considerare le emozioni negative che io vivo, come invece elemento caratterizzante dei “pinguini blu”, comunemente come avviene nel meccanismo di proiezione.

Identità e difesa del gruppo: quando non c’è un premio in palio, due gruppi nutrono una leggera antipatia di fondo (si tratta del loop per cui, chi fa parte del mio gruppo è “sicuramente” più simpatico di un esterno poiché… appartiene al mio gruppo!). Quando invece il gruppo esterno rappresenta una minaccia (nel caso sportivo una nostra sconfitta) ecco allora manifestarsi sentimenti più intensi, che nei casi peggiori possono portare anche a forti discriminazioni.

I punti sopra elencati sono solo una piccola parte delle regole che ci guidano ogni volta che siamo lì a tifare per i nostri colori. L’idea di una “marionetta guidata da euristiche” è sicuramente molto forte, ma sapere e comprendere che siamo spesso in balìa di fenomeni che sono stati studiati e hanno un nome, quando fino ad oggi credevamo realmente che i “pinguini blu” fossero fondamentalmente malvagi, deve perlomeno far riflettere. In effetti è solo l’elaborazione sistematica, l’unico rimedio a queste forme di pensiero “primordiale” abbinata alla conoscenza approfondita dell’avversario in quanto individuo. Un esempio di ciò ce lo dà il rugby con il terzo tempo e le sue classiche cene di fine partita con l’avversario. La sensibilizzazione al tifo non è nuova in Italia, in particolare è attivo da qualche anno il progetto “io tifo positivo” ideato dal compianto giornalista Candido Cannavò, quand'era direttore della Gazzetta dello Sport, che ha lo scopo di promuovere condividere una cultura sportiva positiva all'interno degli stadi.

Per meglio comprendere quali potrebbero essere le misure anti violenza diamo uno sguardo a cosa succede negli altri Stati europei. Gran Bretagna, Germania, Francia, ma anche Spagna e Belgio hanno regolamentato la materia con impostazioni diverse, ma con una comune impronta preventiva e repressiva.

La Gran Bretagna ha puntato molto sulla responsabilizzazione delle società tanto che ha affidato loro la sorveglianza all’interno degli impianti. Stewards privati pagati direttamente dai club sono in collegamento via radio con la polizia che rimane presente solo all’esterno degli stadi. Oggi le forze dell’ordine inglesi hanno la facoltà di arrestare e far processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale.

Il modello anglosassone è stato in parte recepito dalla Germania che, negli ultimi anni, ha ristrutturato gli impianti sportivi togliendo le barriere tra campo e tribune. Oltre alle telecamere esistono poi delle apposite sale con monitor controllati dalla polizia. Anche in questo caso si ricorre al supporto degli stewards pagati dai club.In Germania non esiste una legge nazionale in materia di sicurezza degli stadi e il Governo ha optato per un progetto volto a incoraggiare l’autodisciplina e l’autoresponsabilità dei tifosi stessi. Sta alle autorità regionali richiedere la presenza della polizia per quelle partite ritenute a rischio

Anche in Spagna esiste la figura dello steward, mentre spetta alla Commissione Antiviolenza statale imporre ai club il pagamento di forze di polizia aggiuntive in caso di partite potenzialmente pericolose. Negli stadi spagnoli è vietato introdurre bandiere e aste e i tifosi più violenti possono essere espulsi dagli stadi per tre, sei o anche più mesi.

La Francia invece nel 1993 si è dotata di una legge contro la violenza nello sport e dal 2003 ha sviluppato regole più rigide.

Per quanto riguarda il Belgio è stato invece avviato il progetto ‘Football Fan Card’, una sorta di tessera del tifoso obbligatoria per l’acquisto di un biglietto, dotata di microchip con tutti i dati utili per l’identificazione del tifoso.
 

FONTI: http://www.lecconotizie.com/rubriche/psicologia-dello-sport/il-tifo-da-stadio-te-lo-spiega-la-psicologia-sociale-90470/

http://www.eunews.it/2014/05/06/violenza-negli-stadi-ecco-come-la-combattono-negli-altri-paesi-europei/15317

domenica 24 aprile 2016

EMOZIONI IN CORPO. Un'esperienza di libertà in gruppo



Bellissima esperienza di GRUPPO il 23 Aprile al seminario organizzato dall’Associazione Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara sulla Danza Movimento Terapia.

La dott.ssa Ivana Siena ha presentato la Psicologa e Danzaterapeuta dott.ssa Sabrina Agostinone nel seminario dal nome “EMOZIONI IN CORPO”.

Di seguito alcune foto.






Ciò che è emerso dalle parole della dott.ssa Agostinone ha avuto il sapore della passione per un’arte che si esprime su tantissimi livelli, il corpo, gli sguardi, la musica quindi il saper ascoltare, parlare danzando, ma anche l’ascolto del proprio corpo in contatto con un elemento fondamentale: il suolo... lo spazio, la terra. 



Di ascolto si è parlato anche quando la dimostrazione pratica ha portato i partecipanti ad incontrarsi tra loro, prima da bendati in movimenti casuali che facevano incontrare i loro corpi,
in seguito in un esercizio di coppia attraverso cui l’uno si è messo in “ascolto” del corpo dell’altro.  



 
Libertà, creatività e passione caratterizzano questa disciplina, la Danza Movimento Terapia, la quale non si sostituisce a nessun percorso psicologico o terapeutico, ma si accompagna eventualmente ad essi per completare un percorso di ricerca di se stessi, di accettazione di sé.
La sua capacità di sostenere il benessere attraverso la manifestazione delle emozioni era già nota in molte popolazioni primitive che attraverso i balli tradizionali mimavano i propri stati affettivi individuali o di gruppo.



Interessantissimi, infatti, i commenti dei partecipanti nella fase conclusiva dei lavori, che hanno trovato accordo unanime sul potere del gruppo nell’abbattere il naturale imbarazzo iniziale e sul permettere ad ognuno di sentirsene parte manifestando le proprie emozioni nella completa libertà di espressione.

Gruppi a Pescara

lunedì 11 aprile 2016

TERAPIA DI GRUPPO: IL VALORE DI UN'ESPERIENZA DIRETTA



La comunicazione tra un gruppo di persone assume quasi sempre una forma geometrica che la contraddistingue, il cerchio. Qualsiasi forma di comunicazione, come una chiacchierata con gli amici, un incontro di lavoro, dei ragazzini che devono decidere una strategia di gioco, un gruppo di supporto o una terapia di gruppo avviene in cerchio. 


Questa forma geometrica non è casuale, il cerchio infatti permette ad ogni individuo, partecipante al gruppo, di poter osservare il volto, la postura e le espressioni degli altri, fornendo ai partecipanti l’idea di unione, condivisione, quasi a voler sottoscrivere un patto non detto di alleanza e fedeltà a ciò che vi viene detto e che accade all’interno.
Tutti noi abbiamo partecipato almeno una volta nella nostra vita ad una conversazione di gruppo, in cui i partecipanti assumono una forma circolare, questa posizione, che spesso assumiamo naturalmente quando siamo in gruppo, è stata molto sfruttata nella terapia di gruppo.
La prima volta che partecipai ad una terapia di gruppo fu con famiglie di bambini con la sindrome di Down. Ricordo che ci fecero mettere proprio in cerchio, erano su per giù 15 famiglie e i bambini erano con gli scout al piano di sopra così da non disturbare i genitori. Tra quei genitori alcuni si vedevano per la prima volta, altri invece già si conoscevano e avevano già partecipato ad un esperienza del genere. La posizione che questi hanno assunto all’interno del cerchio è stata pressoché illuminante sotto questo punto di vista, perché aveva messo chiaramente in risalto i gruppi di persone che si conoscevano da quelli che si trovavano li per la prima volta.
Dopo un po' iniziò il gruppo vero e proprio, quello a cui stavamo partecipando era un gruppo di presentazione ad un settimana estiva per genitori di bambini con la sindrome di Down. Dopo un saluto iniziale il coordinatore del gruppo chiede ai partecipanti di presentarsi, ma in maniera particolare, questi infatti si presentavano non raccontando la propria storia, ma il loro essere genitori, la loro esperienza come genitori di un bambino con bisogni speciali.
Ad uno ad uno ogni genitore ha raccontato la propria storia, marito e moglie non la raccontavano insieme, ognuno aveva la propria esperienza da raccontare, il proprio vissuto, le proprie emozioni. All’interno di quel cerchio i partecipanti sembravano svincolati da ogni legame, adesso avevano, tutti, non solo la stessa posizione, all’interno del gruppo, ma anche lo stesso legame. Ognuno dei partecipanti era desideroso di condividere la propria esperienza, le proprie emozioni e i sentimenti provati, ma soprattutto di conoscere quelli dell’altro. 

Parlando poi con i singoli partecipanti ci è stato confermato che quei momenti di gruppo, che si svolgevano una volta al giorno per tutta la durata della vacanza, erano per loro fondamentali, attraverso quei momenti riuscivano a capire meglio i propri sentimenti, le proprie emozioni, nel gruppo avevano portato le loro paure, le loro gioie per i traguardi raggiunti, in quel gruppo avevano trovato conforto e comprensione. Alcuni genitori hanno affermato che quella settimana dava loro la giusta energia per affrontare un intero anno.
Mi sono posta così questa domanda: perché per l’uomo è così importante il gruppo? Che potere ha questo sulle persone, in che modo la condivisione delle esperienze aiuta la crescita e la cura personale?
Fin dall’antichità l’uomo per garantirsi la sopravvivenza ha deciso di vivere in gruppo, questo gli permetteva di assicurarsi cibo e protezione; ma il gruppo permetteva e permette tutt’oggi all’individuo di apprendere le norme di comportamento di sviluppare la propria personalità e di conoscere meglio se stessi. 


Il carattere, la coscienza e il comportamento si formano nelle relazioni che l’individuo istaura con le persone che lo circondano, con le quali si confronta e si scontra; questo gli permette di acquisire l’autonomia, l’indipendenza e la crescita personale. Secondo André Berg (1968) l’essere umano si sviluppa sotto l’azione di due forze contrapposte: una “individualizzante” e una “integrante”; la prima “tende a differenziare sempre più profondamente l’individuo, mentre l’altra tenderà ad integrarlo in un insieme ove l’individualità tende a svanire” (A. Berg, “le psicoterapie” 1968). All’interno del gruppo l’individuo può apprendere l’educazione, la socializzazione e acculturazione, fondamentali per la crescita culturale e sociale dell’individuo. Attraverso il gruppo l’individuo crea la propria identità, inizialmente nel gruppo famiglia, poi in quello dei coetanei e infine nel gruppo sociale di appartenenza; legami e relazioni con il gruppo sono fondamentali all’individuo per capire chi è. Per questo motivo quando parliamo di bisogno di relazione tra gli individui non possiamo fare a meno di parlare del bisogno di appartenenza al gruppo, ossia quel bisogno specifico di riconoscimento, di considerazione da parte degli altri e di scelta differenziale dell’altro come oggetto di relazione. Da questo bisogno scaturisce l’identità di gruppo che consente all’individuo di identificarsi in relazione a come egli appare agli altri, ma gli permette anche di differenziarsi, stabilendo i confini del proprio Io e degli altri; portandolo alla conoscenza del proprio Sé e degli altri.
Nasce così l’idea dei gruppi di terapia i quali hanno lo scopo di permettere alle persone di curarsi reciprocamente (Marsh, 1930). Freud (1920) ci dice infatti che “la psicologia individuale è al tempo stesso psicologia sociale”, è chiaro quindi che non si può considerare l’individuo seTERAnza il gruppo in cui è inserito.

Articolo ispirato dal libro: "La terapia di gruppo. Istruzioni per l'uso di gruppi di terapia." E. Giusti, A. D'Ascoli - Quaderni A.S.P.I.C.

Dott.ssa Chiara Giaquinta
Laureata in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara