giovedì 25 febbraio 2016

L'IMPORTANZA DI STARE IN GRUPPO TRA INDIVIDUAZIONE E APPARTENENZA


Il gruppo è una totalità dinamica, diverso dalla semplice somma dei suoi membri, i quali si caratterizzano nell'interdipendenza ad esso.
Il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l'essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Essa può definirsi come una totalità dinamica.
Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte interessa lo stato di tutte le altre.
Kurt Lewin può essere considerato il padre della psicologia sociale contemporanea. Nella sua definizione il gruppo si configura come una totalità dinamica caratterizzata da relazioni di interazione e interdipendenza tra i membri che ne fanno parte. In tale totalità dinamica, i problemi non sarebbero riconducibili ai problemi di ogni singolo elemento perché i bisogni del gruppo non sono riducibili ai bisogni dei singoli.
Alcune delle sue peculiarità sono:
Il gruppo è una totalità percepita come tale sia dall'interno che dall'esterno.
I membri del gruppo dipendono l'uno dall'altro e il cambiamento del singolo ha ripercussioni sul totalità.
In ogni gruppo è presente un continuo contrasto tra forze che spingono alla coesione e forze che spingono verso la disintegrazione e all'uscita del singolo dal gruppo. Nonostante la dinamicità, il gruppo tende ad un equilibrio.
Un gruppo è perciò un insieme di individui che si trovano in diretto e immediato rapporto, esercitano reciproche azioni di influenza e sperimentano un senso d'appartenenza che li fa sentire parte del gruppo stesso. Si parla di gruppo alla presenza di fattori di contiguità, somiglianza e interrelazione.

Categorizzazione e appartenenza ai gruppi
Tra i vari paradigmi che definiscono il gruppo, il Paradigma dei gruppi minimi evidenzia il fatto che semplicemente imponendo agli individui una categorizzazione sociale si creano comportamenti discriminatori da parte dell'in-group nei confronti dell'out-group. La categorizzazione è un processo cognitivo che divide la realtà sociale in categorie cui si appartiene e non si appartiene, accentuando la percezione di somiglianze intra-categoriali e di differenze inter-categoriali. La categorizzazione sociale ha un ruolo predominante nel processo di definizione di un gruppo.
Quando le persone si categorizzano all'interno di un determinato gruppo sentono un sentimento di appartenenza più o meno intenso. Alcuni lavori sperimentali hanno dimostrato che l'identificazione con un gruppo può avere forti conseguenze sul modo di pensare e di comportarsi delle persone. In generale la ricerca ha messo in evidenza che quanto più una persona si identifica con un particolare gruppo, tanto più essa si comporta e pensa nei termini della propria appartenenza.
Nella quasi totalità dei casi i membri di un gruppo sono tra loro interdipendenti nel senso che le scelte operate da uno di essi hanno delle conseguenze e delle ricadute su tutti gli altri, quando non addirittura sullo stesso destino del gruppo in quanto tale. La forma più forte di interdipendenza sembra essere rappresentata dalla interdipendenza del compito, che consiste nel condividere scopi comuni e perseguire un unico obiettivo, per cui i risultati che ciascun membro ottiene rivestono delle conseguenze per i risultati di tutti gli altri.


Il bisogno di identità e il bisogno di indipendenza
Il gruppo è costituito da una pluralità di interazione con un valore di legame. Ed è proprio il legame che vi è tra i membri del gruppo che crea sentimenti di appartenenza. Il senso di appartenenza svolge all'interno dell'economia di un gruppo tre funzioni principali:
crea coesione nel gruppo
·       definisce i propri confini nei confronti di altri gruppi
·       garantisce la comunicazione con l'esterno
Il rapporto tra singolo e gruppo è caratterizzato dal legame che si instaura tra i membri che ne fanno parte. Questo rapporto è regolato dal bisogno di identità e dal bisogno di indipendenza. Il primo si può considerare quale profondo bisogno dell'uomo di riconoscersi come essere unico e autonomo che ricerca propri spazi differenziandosi dagli altri. Il secondo costituisce, al contrario, il bisogno di sentirsi uguale agli altri, il "sentirsi parte" e quindi dipendere da qualcun altro per l'individuazione del proprio sé. L'individuo all'interno del gruppo ricerca la soddisfazione dei propri bisogni e le identità di gruppo permettono di essere se stessi e differenti allo stesso tempo.



mercoledì 24 febbraio 2016

PIANGERE FA BENE AL CUORE

Il pianto è una manifestazione fisiologica che ci permette di riequilibrare l’umore, è per questo che piangere fa bene al nostro organismo.

Secondo William Shakespeare infatti il nostro corpo è come un giardino e la mente è il suo giardiniere. Siamo fonte e trasmettitori quindi di potenti energie che ci attraversano e ci governano.
Le emozioni sono armi grandiose che ci permettono di scaricare o metabolizzare le tensioni energetiche attivate da stimoli e pulsioni.
Tutti i nostri vissuti sono innanzitutto esperienze della mente, ed è per questo che è così importante attivare il grande potere della mente del quale tutti noi disponiamo.


Ci vuole quindi “un altro sguardo” per poter comprendere le regole psicosomatiche che partecipano a creare il nostro benessere.
Trattenere il pianto o non piangere mai può causare danni al nostro organismo che viene privato della possibilità di gestire in modo più efficace lo stress e le tensioni.

Quante volte infatti abbiamo sentito che piangere ci ha fatto stare meglio? Secondo un recente sondaggio, nove persone su dieci si sentono meglio dopo un bel pianto (circa 88% della popolazione) ed una donna piange in media 47 volte in un anno (fonte accreditata dal Corriere della Sera).

Evitare di piangere quindi aumenta il rischio di infarti e di danni al cervello.
Durante il pianto, soprattutto quello di tipo emotivo, ci liberiamo dalle tossine prodotte dallo stress, in particolare da sostanze come la prolattina e il manganese (presente in modo elevato nel cervello dei depressi).
Sforzarsi di non piangere, blocca le emozioni dentro di noi, favorendo posizioni poco corrette anche per la colonna vertebrale, si pensi ad esempio alle classiche spalle ricurve causate da un irrigidimento della muscolatura.
La tensione quindi viaggia dalla mente direttamente allo stomaco danneggiandolo e provocando in ultimo stadio gastriti e dolori intestinali.
Così facendo poi contribuiamo ad indebolire il nostro sistema immunitario già provato a causa dei forti stimoli negativi al quale è stato sottoposto.
Una recente ricerca di William Frey, biochimico dell’Università del Minnesota (Usa) ha dimostrato in modo scientifico che dal pianto nascono benefici sia fisici che psicologici. Lo studioso ha infatti formulato la “recovery theory” cioè la “teoria della guarigione” secondo la quale le lacrime emozionali, cioè quelle causate da un dolore o dalla commozione, sarebbero un vero toccasana per il nostro benessere.
Esse permetterebbero all’organismo di recuperare l’energia persa a causa di una forte tensione, liberandoci di qualcosa per ristabilire il nostro equilibrio.
Piangere, inoltre, provoca la produzione di enkfalina, un anestetico che rilassa i muscoli facilitando così uno stato distensivo del nostro corpo.
Secondo il professor Frey le lacrime, aiutandoci ad affrontare il nervosismo, ci hanno permesso di sopravvivere alle pressioni della selezione naturale.
È per questo che ogni secrezione che viene dal nostro corpo è preziosa e capace di miracoli.



mercoledì 17 febbraio 2016

La paura e il coraggio di essere felici.




Domanda: “Cosa le manca per essere felice? Cos’ è per lei la felicità?” -
Risposta: “Come può parlarmi di felicità quando tutta la mia vita è uno stress: il lavoro, il traffico quotidiano, i litigi familiari, il tempo e i soldi che non bastano mai, i figli da crescere e da controllare, gli impegni sociali, e poi le tasse, le malattie, il mutuo, il terrorismo, l’inquinamento. E lei parla di felicità? In quale mondo vive? E’ già tanto se raggiungo la serenità”.


Una risposta che ricevo troppo spesso tra un misto di rassegnazione e di rabbia. La felicità: pensarla e desiderarla sembra quasi scandaloso: è il nuovo tabù dei tempi moderni.
Chi ne ha esperienza, in qualche momento della vita, la nasconde con il silenzio, l’imbarazzo, la vergogna, la diffidenza e il timore. Di cosa? Dell’ aggressività, dell’invidia e della frustrazione dei cosiddetti “altri” che spesso si rivelano essere i propri familiari, le persone di cui ci si fida. Quelli che hanno messo a tacere i propri sentimenti e i propri desideri, che hanno perso quel navigatore interno - il personale senso della felicità - e diventano dirottatori sabotatori di quello degli altri. 
Ma cos’è la felicità? Comunemente è considerata un traguardo, uno stato di soddisfazione legato alla soluzione di problemi o al raggiungimento di obiettivi desiderabili, di un benessere economico permanente.


Possiamo pensarla in un altro modo? Un’ ulteriore senso che ci è dato per natura, una modalità percettiva che ci suggerisce, sussurra, spinge, orienta verso il nostro benessere, verso le persone, le situazioni conformi al nostro autentico modo di essere. Un senso che perdiamo durante la crescita; c’è chi lo chiama il “paradiso perduto o la “caduta” da uno stato di grazia. Può accadere così, da bambini. Una volta, abbiamo confessato un segreto desiderio del cuore, o mostrato a qualcuno di essere felici. Con quell’apertura, quello splendore, quel sorriso tipico di chi avverte e si sente pervaso dalla sensazione di un totale appagamento; semplicemente perché si sente connesso con una fonte di felicità invisibile, non definita. O magari, in occasione di semplici avvenimenti. Inaspettatamente, dopo quel sorriso, abbiamo sentito abbassare il livello energetico della felicità, è cambiato l’umore, si è interrotto di colpo qualcosa ed è arrivato un buio, è affiorato un disagio, uno strano senso di colpa, la sensazione di aver commesso qualcosa di sbagliato, di aver tradito qualcuno che non era felice come noi. Perché non poteva più esserlo o forse…non voleva.
E d’improvviso un pericolo, e ci siamo protetti.
Come? Come si fa con un qualsiasi trauma: l’abbiamo rimosso. Abbiamo ricacciato nell’inconscio quel senso di felicità perché si è trasformato in un dolore, in una paura, pericolosa da rivivere e lo reprimiamo ogni volta che riemerge fino a dimenticarlo. Ogni tanto, negli anni riaffiora: “”Mi sento felice, mi sento bella/o, sento che tutto è possibile”. Ma ora sappiamo cosa fare per non soffrire. Ormai, siamo andati a scuola dell’Ego che ci dice: ”Attenta/o! Dove sarà la fregatura? Quanto durerà? Quanto pagherò per questo? Quando arriverà la punizione?” Meglio di no…”. Così ci abituiamo a non stare bene, ad essere diffidenti verso le sensazioni e le emozioni che ci sorprendono, che ci informano che qualcosa di bello sta arrivando. “No! A me? Proprio no!” Si chiama paura e rimozione della felicità. Proprio così. Esiste. 
Uno studio condotto nel 2010 da alcuni ricercatori statunitensi (Olatunji O et.al) lo ha messo in evidenza. Le emozioni ma anche i pensieri, le fantasie, i desideri gratificanti sarebbero vissuti come potenzialmente pericolosi, come una minaccia da cui difendersi perché ci fanno perdere l’autocontrollo e quindi ci renderebbero vulnerabili. Vengono chiamati disturbi nella sfera dell’umore o disregolazione, cioè incapacità di gestire le emozioni positive che sarebbero invece subìte come tempeste da cui proteggersi. E’ questa la nevrosi moderna: quella ontologica, cioè l’incapacità non solo di trovare il senso e il significato della propria vita, ma di riconoscere e vivere il senso della felicità. Anche l’attacco di panico a volte è la reazione errata ad un suo avvicinarsi, una “fuga dalla felicità”. L’ho verificato molte volte con persone molto educate, rispettose delle regole che fin da piccole si sono abituate a controllare le emozioni, quelle belle, spumeggianti perché non conformi ad un certo modello educativo. E quando c’è la possibilità di più gioia, scappano. E cosa serve per sconfiggere la paura? Il coraggio. Parola che ha la stessa radice etimologica di cuore: un’esigenza, un’azione che parte dal cuore, come i desideri, anch’essi repressi. Sembra assurdo ma ci vuole il coraggio per essere felici. Il coraggio di riscoprire questo senso che ci fa sentire più vivi, che cerchiamo in molti modi anche sul lettino dello psicanalista. Ma anche la Psicologia tradizionale è troppo concentrata a risolvere problemi, a parlare di malattie, di conflitti e dolore, a riportare alla normalità. E invece, dovrebbe avere come punto di partenza la ricerca della felicità. La Psicologia della felicità (da non confondere con il Pensiero positivo), intesa come un modo di pensare e agire basato su nuovi significati, nuove interpretazioni delle esperienze e delle emozioni non date dall’esterno, ma vissute e sperimentate in prima persona attraverso il recupero del personale senso di conoscenza che è la felicità. E poi, sostenere la pratica della virtù per seguirla, mantenerla e proteggerla. E’ una ricerca coraggiosa che implica il riconoscimento delle responsabilità nelle scelte fatte e in quelle da fare, l’attraversamento dei momenti di crisi guardandoli come opportunità, il rivolgersi domande scomode, il crollo delle false illusioni e lo smascheramento dei piccoli e grandi tradimenti commessi contro se stessi. Ci vuole coraggio, si. Per disseppellire i dolori e trasformarli in amore e consapevolezza, per dissociarsi dal comune pensare, dalla rassicurante normalità che imprime una sola direzione verso la sfiducia, lo scetticismo, l’impossibilità del cambiamento. Il coraggio di cambiare gli amori, le amicizie, le abitudini, il coraggio di cambiare strada. Allora, onestamente rispondiamo: “Ce l’abbiamo il coraggio di essere felici? “


giovedì 11 febbraio 2016

Conosciamo la rabbia

Per crescere, i bambini hanno bisogno di sperimentare continuamente quello che possono e non possono fare, limiti e possibilità: l’aggressività è una naturale e sana espressione di questo processo di sviluppo. Una reazione arrabbiata e collerica è prima di tutto la manifestazione di un’emozione di questo normale processo e il bambino deve essere libero di esprimerla per poter imparare a controllarla. Quando si impara qualcosa di nuovo, la si fa inevitabilmente male e la rabbia non fa eccezione: i bambini si arrabbieranno “male” per un bel po’, prima di imparare a farlo “bene”! Perché è necessario insegnare ai bambini come manifestare la rabbia, non insegnare loro a non arrabbiarsi.



L’espressione della rabbia, inoltre, è il primo passo verso l’accettazione della frustrazione. I bambini non accettano volentieri un NO e, per farlo, devono necessariamente attraversare la collera. Difatti, non poter ottenere ciò che si desidera provoca un naturale sentimento d’ira causato dal non poter soddisfare ciò che si desidera – e questo non vale solo per i bambini!
Un bambino arrabbiato, quindi, non è cattivo: è un bambino che sta crescendo, che sta sperimentando se stesso e quello che sente dentro di sé e che sta imparando a conoscere il mondo che lo circonda.
Vediamo insieme come si manifesta l’aggressività nei bambini e come cambia nei primi anni di vita:
- fino ai 18 mesi circa il bambino non sa ancora esprimersi bene attraverso il linguaggio e, anche per questo, le sue reazioni sono molto fisiche: spesso a quest’età i bambini mordono, spingono o strattonano per manifestare la loro frustrazione. Anche se non si devono assecondare questi comportamenti, dobbiamo sempre tenere presente che non c’è l’intenzionalità di fare male. Il morso, ad esempio, rappresenta la modalità più adatta per manifestare diverse emozioni e per “provare” l’altro;
- intorno ai 2 anni l’aggressività comincia a essere intenzionale, è ancora molto fisica ed è rivolta soprattutto verso mamma e papà, da cui i bambini hanno bisogno di separarsi per affermare la propria individualità e conquistare il loro posto nel mondo;
- a 3 anni la rabbia inizia ad essere rivolta anche verso i coetanei e diviene uno strumento – quasi l’unico a loro immediata disposizione! – per trovare uno spazio all’interno di un gruppo di pari.
Vediamo insieme quali comportamenti adottare davanti alla rabbia e all’aggressività dei bambini per non esserne sopraffatti noi e perché i piccoli non crescano con l’idea che arrabbiarsi sia sbagliato.
- Diamo poche spiegazioni.
Più il bambino è piccolo, meno dobbiamo dilungarci in spiegazioni articolate; diciamogli chiaramente che quella determinata cosa non si fa, allontaniamolo e diamogli il tempo di calmarsi. Dobbiamo sempre ricordarci che il nostro bimbo imparerà a non essere aggressivo, ma per capirlo dovrà arrabbiarsi molte volte!
Le spiegazioni devono essere sempre brevi e chiare: un bambino arrabbiato fatica a concentrarsi su quello che gli diciamo. Ecco perché è opportuno usare poche parole molto precise. Una volta che si sarà calmato, possiamo chiedergli “Hai capito perché mi sono arrabbiato?”. Le risposte a questa domanda ci sorprenderanno, perché spesso i bambini non lo sanno davvero o hanno idee molto lontane dalla realtà. E noi avremo l’occasione di spiegare il perché in un clima più disteso e favorevole alla comprensione.
1. Disapproviamo il comportamento, non il bambino. Ricordiamoci di dire al bambino: “Hai fatto una cosa antipatica, brutta…”. E mai: “Sei un bambino cattivo”. E’ fondamentale evitare di dare giudizi assolutizzanti che imprigionano i bambini in etichette impossibili da modificare. E’ molto più facile pensare di cambiare un singolo comportamento che una persona nella sua interezza. Inoltre per i bambini è vitale sapere che i sentimenti che provano sono sempre accettati, indipendentemente dalla loro manifestazione. Anche in questa occasione teniamo presente che è più facile controllare l’esternazione di un sentimento che il sentimento stesso. Un’emozione si prova anche contro la propria volontà. Viceversa la sua espressione esterna può avere diverse modulazioni molto più gestibili.
2. Conteniamo il bambino. Quando i bambini sono piccoli, spesso esprimono la rabbia in modo fisico, anche con accessi di aggressività. In questi casi soprattutto, i piccoli non sanno ritrovare la calma in maniera autonoma; è necessario allora dare loro un abbraccio contenitivo. E’ un modo fisico, non verbale, molto efficace di dire loro: “Eccomi, sono qui. Ti calmo io, perché io ho la forza per farlo”.
3. Proponiamo alternative per sfogare la rabbia. Se, come abbiamo visto, la rabbia è normale, non dobbiamo chiedere a un bambino di non arrabbiarsi. Il nostro compito è di insegnargli un modo alternativo per sfogarsi, permettendogli così di conoscere e controllare questa emozione e, prima di tutto, dobbiamo permettergli di tirare letteralmente fuori quello che sente dentro di sé. Possiamo scegliere un cuscino, uno solo, che può diventare il cuscino della rabbia da bistrattare quando si è arrabbiatissimi; possiamo tenere un quaderno della rabbia in cui disegnare ogni volta tutta la rabbia che sentiamo, strappare il foglio e fare in mille pezzettini il furioso disegno; oppure possiamo prendere dei vasetti con etichette colorate, uno per ogni emozione, e prendere quello della rabbia per urlarla al suo interno e richiudere il coperchio per non farla uscire. In questo modo aiutiamo il bambino a riconoscere le emozioni: un vasetto per la felicità, uno per la tristezza è un buon modo per rendere concreto qualcosa che non si può vedere e per iniziare a nominarle e a riconoscerle.
4. Diamo noi voce alla sua rabbia. Diciamogli che capiamo che è infastidito, arrabbiato o furioso – cerchiamo di essere precisi, la rabbia non è sempre uguale! -, ma che questa cosa non si può comunque fare. Lo abitueremo così a verbalizzare le emozioni e a conoscerle e lo accompagneremo verso l’accettazione della frustrazione.
5. Manteniamo la nostra posizione. Di fronte al grido “E’ un’ingiustizia!!!!”, rispondiamo con più tranquillità possibile che è vero, questa cosa forse è ingiusta per lui, ma resta così. I bambini hanno un forte senso della giustizia, ma nei primi anni di vita è giusto ciò che vogliono loro e ingiusto ciò che impongono gli altri. E ci vuole un bel po’ di tempo perché questa concezione di giustizia si modifichi.
6.  Non sommiamo la nostra rabbia  a quella del nostro bambino. Proviamo a sedare la rabbia senza ricorrere anche noi ad essa! Preferiamo la calma: questa è forse la parte più difficile, ma è il modo migliore per offrire un modello di comportamento alternativo. E i bambini, si sa, imparano da quello che vedono prima ancora che da quello che diciamo loro.

Lasciamo, quindi, che i bambini si arrabbino: insegneremo loro ad accettare i limiti, a conoscere il mondo e a sviluppare la loro identità. Il compito difficile è, ancora una volta, dei genitori: riuscire a sopportare urla e pianti e resistere a occhioni tristi che guardano imploranti è difficile. Ma è per il loro bene e non possiamo tirarci indietro!

http://www.consulenzafamiliare.com/conosciamo-la-rabbia/

mercoledì 10 febbraio 2016

Gruppi di parola: il bisogno di essere ascoltati.

I "Gruppi di Parola"si sono diffusi in Italia di recente, grazie al gruppo di professionisti del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell'Università Cattolica di Milano, diretto dalla prof.ssa Eugenia Scabini. Nascono quindi dalla ricerca negli altri Paesi di "buone prassi" di ascolto e supporto dei minori che stanno vivendo la separazione dei propri genitori.
Dopo varie ricerche, in Canada è stato individuato il modello a cui ispirarsi: si tratta dei "Groupe confidences"organizzati da Lorraine Filion presso il Tribunale di Montreal, per dare spazio alla parola dei figli di genitori separati che ricorrevano al giudice. Per evitare il rischio della banalizzazione dell'evento separativo, la mediatrice canadese ideò questo intervento dalla forte valenza preventiva, dove erano affrontati i rischi, le ferite, la fatica presenti nella vita pratica e nell'esperienza emotiva dei figli di separati.
I Gruppi di Parola si possono definire un "luogo" e un "tempo" offerto ai figli di genitori separati, affinché questi abbiano la possibilità di accedere ad una loro narrazione dei fatti dolorosi legati al divorzio. Si tratta di un'esperienza in cui il minore può costruire liberamente una rappresentazione verbale dell'esperienza del conflitto vissuto quotidianamente, può dar voce ai suoi desideri e reperire con l'aiuto del gruppo di pari e con la guida protettiva del conduttore, strategie possibili per gestire le relazioni all'interno del suo sistema familiare in cambiamento.
Accanto alla mediazione, rivolta in particolare alla coppia genitoriale, i Gruppi di Parola sono una risorsa specifica per accompagnare i figli in questo momento di transizione: entrambe queste risorse rappresentano dei fattori protettivi affinché un evento critico come la separazione, non diventi un dramma.

Parlo di questa iniziativa con grande passione, dopo aver avviato a Padova negli ultimi due anni sette gruppi di bambini. Ma vediamone in dettaglio in cosa consistono
Secondo il modello "milanese" il Gruppo di Parola permette infatti lo scambio e il sostegno tra bambini dai sei ai dodici anni (suddivisibili in gruppi dai sei ai nove anni e dai nove agli undici anni) accomunati dall'esperienza della separazione dei propri genitori.
Il percorso è strutturato in quattro incontri di due ore ciascuno con cadenza settimanale (si mantiene lo stesso giorno della settimana con lo stesso orario) e all'ultima ora dell'ultimo incontro vengono invitati (con invio di lettera personale) entrambi i genitori per "raccontare" attraverso la lettura del "Letterone" di gruppo quanto è emerso negli incontri precedenti (i contenuti vengono scritti sotto forma anonima attraverso semplici frasi o domande rivolte ai genitori). Il numero dei partecipanti non dev'essere troppo elevato, affinché il dialogo non risulti né troppo personale, né troppo dispersivo (si va dai quattro agli otto partecipanti).

Ogni appuntamento di gruppo è scandito da momenti rituali e prevede un momento preliminare in cui si accolgono i bambini, in attesa che arrivino tutti i partecipanti; Le varie fasi del gruppo prevedono un esordio, la proposta dell'attività principale, una breve pausa con la merenda (proposta e offerta come sorpresa dal conduttore del gruppo) a cui seguono altre attività, collegate al tema proposto nella prima parte e infine un congedo.
L'avvio, l'interruzione, il congedo seguono dei rituali ben precisi per offrire sicurezza agli elementi del gruppo, che pur non conoscendosi entrano in confidenza già dai primi istanti di presentazione: l'aver vissuto esperienze simili crea una connessione tra loro difficilmente spiegabile a parole, ma che li rende compagni e solidali tra loro, al di là delle simpatie/antipatie individuali.
Le tematiche proposte sono numerose e possono variare (molto spesso è così) in base a quanto emerge nel primo incontro di conoscenza: il senso di responsabilità verso la separazione dei genitori, il conflitto, la relazione con il genitore non coabitante, i nuovi compagni dei genitori, i nuovi fratelli, la nuova posizione del figlio nella geografia famigliare, cosa significa che i genitori non sono più coppia ma genitori per sempre...tutte frasi che loro sentono, ma di cui molto spesso non capiscono il reale significato.
Questi temi vengono trattati in modo flessibile, in base ai bisogni che emergono da quel determinato gruppo: per questo motivo viene raccomandato, durante la formazione per conduttori, di avere più strumenti accuratamente preparati in modo da poter gestire la scelta dello strumento in base alla valutazione del momento (lavorare con i bambini porta con sé sempre una dose di imprevedibilità). Si utilizzano il disegno, il collage, i cartelloni, i burattini, i libri illustrati, i giochi di ruolo ma come già detto la parola è la risorsa principale: parola che si fa condivisa (nel confronto di gruppo), che si fa riservata (nella scatola dei segreti) e parola che può rimanere ancora silenzio.
La preoccupazione del conduttore è quella non solo di permettere l'enunciazione del fatto e del sentimento che lo accompagna, ma di aiutare il gruppo ad individuare strategie di fronteggiamento nel quotidiano, delimitando cosa compete ai figli e cosa agli adulti coinvolti.
A questo proposito, al termine dei quattro incontri rivolti ai bambini, viene proposta a ciascuna coppia genitoriale la possibilità di incontrare il conduttore/le conduttrici del gruppo, per un confronto su come il proprio figlio ha vissuto gli incontri, se è cambiato qualcosa nel rapporto con i genitori (solitamente i genitori raccontano che il primo effetto del gruppo si manifesta nella gran quantità di domande che il bambino comincia a fare già dopo il primo incontro) e solitamente emergono anche le loro difficoltà di adulti nel gestire il legame genitoriale.
Dall'esperienza si è visto poi che più di qualche coppia, sollecitati dal percorso fatto dal loro bimbo, ha richiesto degli incontri di mediazione per essere sostenuti nel compito genitoriale, che ben sappiamo di difficile gestione dopo aver interrotto il legame coniugale.
Quest'ultimo incontro con il conduttore è ovviamente liberamente proposto e compreso nel contributo richiesto per l'iscrizione al Gruppo di Parola: si è visto che i genitori accolgono con piacere l'invito all'incontro individuale finale, come naturale conseguenza dell'autorizzazione richiesta per l'iscrizione del figlio. Si sono presentati in questi anni solo rari casi in cui i due genitori hanno richiesto un incontro individuale, separatamente dall'ex coniuge.
"Iscrivere il proprio figlio ad un Gruppo di Parola è per lui un'opportunità per vivere meglio le trasformazioni che attraversano la famiglia": questa è la frase di Marie Simon. Con questo proclama iniziale, si invitano i genitori, pur divisi e talvolta in aperto conflitto, a prendere un'iniziativa congiunta (ma non per nulla scontata anche nell'affidamento condiviso) firmando la scheda di iscrizione.
I bambini che stanno vivendo questa trasformazione della propria famiglia, spesso raccontano che la testa è ingombra di preoccupazioni per quello che succede a casa e non hanno spazio per ascoltare e per fare le "cose" della loro età: sentono parlare di avvocati e di tribunale e non capiscono cosa cambierà nella loro vita.
E se i genitori pensano che i figli "siano rimasti fuori dal conflitto" o che non sappiano, è vero invece che questi recepiscono le vicende dei "grandi" e sostituiscono le informazioni reali, che il più delle volte non vengono fornite, con delle fantasie che molto spesso comprendono la responsabilità del bambino stesso: il senso di colpa è purtroppo frequente e doloroso.
Troppo spesso il disorientamento che travolge i bambini in questa lunga fase di trasformazione delle relazioni familiari, si accompagna ad una grande solitudine: non sanno bene come esprimere la rabbia, la tristezza, i dubbi, le difficoltà che incontrano per la separazione di mamma e papà e non sanno con chi parlarne.
Partecipare ad un Gruppo di Parola permette ai bambini di esprimere ciò che vivono: emozioni, dubbi, timori, fantasie, preoccupazioni che occupano la loro mente impedendo di vivere il loro tempo di bambini. La condivisione tra bambini permette di far uscire il singolo bambino dall'isolamento, affrontando tematiche di fondamentale importanza in un ambiente accogliente che permetta di "nominare" l'evento della separazione, che in questo modo viene decifrato e ridimensionato.
Le finalità dell'intervento mirano a fornire ai bambini e ai loro genitori competenze utili per facilitare la comunicazione e la risoluzione dei problemi connessi alla separazione, offrire un ambiente sicuro in cui poter parlare dei loro pensieri, sentimenti, dubbi e raccontare le loro esperienze e imparare ad affrontare le situazioni difficili a seguito della nuova riorganizzazione familiare.


Dare parola ai figli, rappresenta un passo verso la soggettivazione del bambino con il conseguente miglioramento della sua autostima: da oggetto passivo nelle mani dei genitori, può sperimentare nel gruppo una posizione più attiva e mettere in movimento risorse proprie e della sua famiglia, per convivere al meglio con la propria realtà complessa.
In conclusione, la partecipazione ad un Gruppo di Parola non modifica magicamente il contesto quotidiano dei bambini, né suggerisce una prassi di comportamento.
Semplicemente e "potentemente" offre un'occasione al bambino per riconoscere le proprie emozioni, i propri sentimenti, i dubbi, le speranze, le risorse presenti dentro di lui e nell'ambiente in cui vive e per nominare le difficoltà di tutti i giorni, attrezzando così i partecipanti affinché ciascuno, forte dell'esperienza di gruppo vissuta, scopra soluzioni praticabili nel suo contesto familiare, riavviando o consolidando la comunicazione all'interno della propria famiglia.
Concludo riportando le parole di E. Scabini sull'importanza che riveste l'ascolto del minore per tutto il sistema famiglia che è alla ricerca di un nuovo equilibrio:

"Proprio a partire dalla domanda del figlio, la coppia oggi fragile e mossa prevalentemente dal diritto individuale di appagamento e in difficoltà a rispondere adeguatamente alle proprie responsabilità generative, può trovare forza e motivi di una rinnovata alleanza genitoriale. Partire dalla domanda del figlio, dal suo interrogare la coppia e la storia familiare che la precede è il vero antidoto alla parentificazione, soluzione quasi inevitabile se ci si affanna a "normalizzare" le ferite preoccupandosi solo del rapporto tra il singolo genitore e il singolo figlio, saltando per così dire il legame di coppia."

http://www.genitoripersempre.it/Convegni-e-Incontri/il-bisogno-di-essere-ascoltati-la-nuova-risorsa-dei-gruppi-di-parola.html

domenica 7 febbraio 2016

GRUPPI DI TERAPIA SULLA DIPENDENZA AFFETTIVA




La condivisione è il principio base che guida questa esperienza,
attraverso la quale ognuno può riscoprire nell'altro le sue stesse difficoltà,
venendo in contatto con percorsi nuovi da cui imparare a guardare le cose
con occhi diversi.  (Giusti, Nardini, 2004)

Modalità di accesso al gruppo
I partecipanti accedono al gruppo a seguito di un colloquio psicologico preliminare. 

Dove e quando
Gli incontri del gruppo hanno cadenza settimanale per la durata di 90 minuti, ogni venerdì presso la nostra sede di via Nicola Fabrizi n. 60 a Pescara.

Per informazioni e contatti
Dott.ssa Ivana Siena 391.35.19.017
Dott. Roberto Prattichizzo 335.16.07.020

Oppure scrivere una mail a gruppiapescara@gmail.com


martedì 2 febbraio 2016

L'APPETITO VIEN MANGIANDO

L’appetito vien mangiando.
Prendersi cura di se stessi, un concetto semplice per alcuni ma difficile per altri. Ci sono diversi modi attraverso cui una persona può prendersi cura di sé: ad esempio curando il proprio aspetto fisico o  curando il proprio abbigliamento, per cercare di apparire sempre alla moda e impeccabile agli occhi degli altri. La cura di sé però, non implica solo la cura del proprio aspetto esteriore ma anche la cura del proprio aspetto interiore. Tale cura avviene laddove l’individuo seleziona risorse che lo aiutino a nutrire al meglio il proprio corpo. Le persone nel corso della propria vita sono libere di nutrire il proprio organismo  con “alimenti” positivi o negativi. Per alimenti in questo caso si fa riferimento a tutte quelle risorse positive o negative, che andrebbero a favorire o ostacolare il proprio benessere psicofisico. Ma come si fa ad arricchirsi per lo più di risorse positive che negative? Per alcune persone risulta facile prendersi cura dei propri bisogni, amarsi, non trascurarsi, per altre no. Quante volte da piccoli ci è capitato di essere rimproverati dai nostri genitori per ciò che mangiavamo, perché quegli “alimenti” non sani avrebbero potuto farci male. Quanti di noi non hanno dato peso a quelle parole in quel momento, ignorando i propri genitori e ignorando a loro volta loro stessi. Forse eravamo troppo piccoli o forse facevamo finta di esserlo, ma ora da adulti non si riesce più a far finta di nulla di fronte a certe cattive abitudini.  Talvolta mi chiedo: ”perché è così difficile assumere “alimenti” sani che potrebbero fare solo del bene, ma è più facile cadere in tentazione mangiandone di scadenti? 


Credo che tale difficoltà derivi dal fatto di soffermarsi ben poco su cosa vogliamo realmente, su cosa sia meglio per noi e di cosa realmente abbiamo bisogno.
E’ difficile guardarsi dentro per scoprirlo, alle volte si ha paura di prendere quello specchio accanto al comodino per guardare la propria immagine riflessa. Forse per paura di vedere come siamo  o forse perché abbiamo paura di mostrarci agli altri per come siamo. A tutti sarà capitato di nascondersi da qualche specchio che potesse in quel dato momento riportarci alla realtà. Però quando riusciamo a trovare il coraggio di prenderlo in mano e di guardare all’interno di esso, scopriamo il bello che c’è in noi, quell’immagine che tenevamo nascosta per paura di confrontarci con il mondo esterno. Talvolta fa paura prendere in mano quello specchio per guardarsi, perché si tende a pensare che l’immagine riflessa non sia abbastanza bella per gli altri, che quell’immagine non sia all’altezza degli altri. Crediamo che la soluzione più semplice sia allontanare questa paura, scacciare quell’incessante pensiero che ci rimbomba nella testa e scappare laddove ci è possibile per nascondere noi stessi. Attraverso l’esperienza di gruppo che ho vissuto all’interno del mio percorso universitario, mi sono ritrovata ad affrontare una situazione nuova, una situazione che non avevo mai avuto il coraggio di affrontare prima. Il dovermi confrontare con persone diverse, il dover dire la mia opinione davanti agli altri, il dover lavorare in gruppo, mi terrorizzava.
Mi sentivo confusa, era come se stessi combattendo con due lati di me: da una parte ero spaventa ma dall’altra ero curiosa, avevo voglia di mettermi in gioco, di sperimentarmi e di vedere cosa sarebbe accaduto se avesse avuto la meglio questo lato di me. Ho avvertito dentro di me la voglia di cambiare, di uscire allo scoperto, di smettere di stare male solo per una paura, una paura che alimentavo solo io.
Ho deciso così di affrontare questa paura, ho deciso di ascoltarla, ho deciso di trasformare questa paura in coraggio, infondendomi fiducia e accogliendo anche la fiducia da parte del mio gruppo, il quale mi ha accompagnato e sostenuto in questo percorso di svolta. Quest’azione  per me ha rappresentato davvero una vera e propria svolta. Ho ripetuto a me stessa che ce l’avrei fatta, che io non ero e non valevo meno degli altri e che se invece di criticare gli altri davo un valore ad ognuno di loro, l’avrei guadagnato anche io. Ho deciso di rischiare per stare bene con me stessa e per far si che potessi esserlo anche con gli altri, cosa di cui prima mi privavo. Ognuno di noi ha paura del cambiamento, perché non sa mai cosa aspettarsi e come potrebbe reagire di fronte ad una situazione nuova. Il cambiamento  però permette a noi essere umani di evolverci, di migliorarci con noi stessi e con gli altri. Ciò possiamo farlo ascoltando noi stessi, ascoltando le nostre emozioni, mostrandole come nel caso della paura, per poter fronteggiare al meglio le situazioni che il mondo esterno ci pone. Ma possiamo anche farlo permettendo ad ognuno di noi di alimentarsi di risorse positive e di nutrire anche gli altri di tali risorse, permettendo così ad ognuno di noi di star bene con se stesso.



Concludo citando una frase tratta dal libro del Picccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry:


“é una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. E’ una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttare via tutte le possibilità di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza.Per ogni fine c’è un nuovo inizio.”

Dottoressa Ortensia Posa laureata in Psicologia e tirocinante presso l'Obiettivo Famiglia Onlus.